Covid e pandemia: se leggere può aiutare a capire

Pieter Brueghel, Il trionfo della Morte, 1562 ca, olio su tavola, 117x162 cm, Madrid, Museo Nacional del Prado

Il mondo è sottosopra a causa del Covid-19, un nemico invisibile che si è insinuato nelle vite di tutti noi e che pare recalcitrante a volerne uscire. Il virus ha stravolto completamente le nostre abitudini, obbligandoci prima a una quarantena assoluta che sembrava essere solo un brutto ricordo nei mesi spensierati e irresponsabili dell’estate, ma che in questi ultimi giorni è ritornata concreta, sebbene con meno limitazioni rispetto alla primavera scorsa.

In televisione e sul web gli esperti o presunti tali fanno a gara per proporre soluzioni e metodi di analisi che il più delle volte si perdono nell’aria o finiscono sulle bacheche dei tifosi da tastiera, oggi più che mai indirizzati a parteggiare per questo o quel virologo, forse perché a molti di loro è stato tolto lo sfogo calcistico da stadio o da divano.

Azzuffarsi su internet è un modo in verità molto umano di esorcizzare la paura del contagio e del disastro economico che ne è diretta conseguenza. Fin qui nulla di male (parole son parole, cantava Guccini qualche anno fa, per il quale l’uomo solo che fischietta dal terrore e vuole nel silenzio udire un suono, far rumore). Il problema nasce quando vuole prevalere la ragione dell’uno piuttosto che dell’altro e, invece che solide argomentazioni, non diciamo scientifiche, ma almeno logiche, è anteposta la furia dell’urlo, del turpiloquio, fino ad arrivare all’insulto.

Una cura al Covid-19 non esiste ancora. Chi la cerca sta spendendo il suo tempo non a cicalare su Facebook, ma sudando nei laboratori, negli ospedali e in tutti quei luoghi-trincea dove la vita reale non si misura con un like, con un cuore o con un abbraccio virtuale. Esiste però una cura per rendere la paura meno tangibile, il ragionamento una consuetudine e il dialogo più costruttivo. È la lettura. Richiede del tempo, questo è chiaro, ma se praticata quotidianamente, la sua efficacia risulta sorprendente.

Ognuno ha il suo genere preferito e non saremo certo noi a voler imporre questo o quel libro, ma siccome si parla di pandemia, allora abbiamo voluto selezionare alcuni libri che trattano proprio di questo argomento. In verità ce ne sarebbero molti di più, ma a nostro avviso quelli che andremo a segnalare sono i più significativi e anche i più diversificati tra loro.

I ricordi scolastici ci portano alla mente il Decameron di Boccaccio, dove sette ragazzi e tre ragazze, tutti fiorentini, si spostano dalla città in campagna per sfuggire alla tremenda peste del 1348. Consapevoli del pericolo, esorcizzano la paura con canti, balli, preghiere e, soprattutto, con il racconto delle novelle, cifra stilistica dell’opera. La peste è il pretesto per abbandonare Firenze, non è la protagonista, ma la sua ombra aleggia comunque nelle giornate spensierate dei giovani.

La peste probabilmente più famosa della letteratura è quella del 1630 che Alessandro Manzoni riprende con puntiglio storico nei Promessi sposi, affidandosi alle cronache di Giuseppe Ripamonti e Alessandro Tadino. Rileggendo i capitoli a essa dedicati, notiamo subito la loro attualità: la diffusione del contagio, l’inefficienza delle autorità, l’ignoranza del popolo, le accuse ai medici, la caccia all’untore.

Parallelamente al suo capolavoro, Manzoni scrive La storia della colonna infame, un saggio sulla condanna di due innocenti, responsabili (a torto ovviamente) di avere diffuso il morbo attraverso strane sostanze. In origine il libro doveva far parte della struttura narrativa dei Promessi Sposi, nella prima edizione di Fermo e Lucia, ma poi l’autore reputandolo troppo lungo lo eliminò, dandogli un’autonomia propria.

Resta però sempre valido, oggi più che mai, il consiglio che Manzoni ci dà, chiudendo la parte inerente alla peste: «Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire».

Con un salto temporale di un secolo, ci spostiamo nel Novecento quando il tema delle epidemie e in generale dell’emergenza sanitaria e del timore che ne deriva, sembra essere di particolare ispirazione per gli scrittori, i quali sovente lo usano come allegoria o come metafora della contemporaneità.

È il caso de La peste di Albert Camus, scritto nel 1947, cioè a guerra appena finita. Le vicende narrate sono ambientate nella città algerina di Orano dove scoppia il focolaio. A Orano la vita scorre tranquilla, almeno fino a che non si comincia a capire che qualcosa non va. Le persone iniziano ad ammalarsi e a morire. È la peste. Bernard Rieux, il narratore, racconta ciò che vede coi suoi occhi: c’è chi si lascia prendere dal panico, chi cerca di combattere il male, chi continua a comportarsi come niente fosse avvenuto, chi si affida alle cure dello spirito, chi biecamente vuole lucrare sulle sfortune altrui.

La città lotta disperatamente, ma la peste sembra non volersene andare. Poi, un giorno di febbraio se ne va, così come era arrivata. La popolazione festeggia, l’unico che se ne sta alla finestra è Rieux, consapevole del fatto che la minaccia è sempre dietro l’angolo. «Lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e per insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice».

Qualche anno dopo la pubblicazione del romanzo di Camus, il siciliano Gesualdo Bufalino cominciava a scrivere la Diceria dell’untore, poi uscito nel 1981 con una gestazione di trent’anni. Il protagonista, un giovane reduce di guerra, è trasferito in un sanatorio nei pressi di Palermo, un luogo dove il tempo e lo spazio si sono fermati rispetto a quelli della normalità. Lì la figura più potente è un medico, il Gran Magro, che decide le sorti dei suoi pazienti che, apatici, sembrano solo attendere la morte.

Tuttavia la vita irrompe, sia a livello personale che collettivo. Per il giovane è rappresentata dall’amore di una donna, anch’essa ricoverata. I due tenteranno una romantica fuga, abbandono del posto dove non succede nulla e scoperta di una speranza che, in fin dei conti, esiste. Marta però muore e con lei tutti gli altri, eccezion fatta per il protagonista che porterà per sempre dentro sé il rimorso di essere sopravvissuto, ma che incontrerà la Storia e ne farà parte, come accadrà, seppur diversamente, nel Memoriale di Paolo Volponi.

«Io ne ero evaso, per chissà quale disguido o colpo felice di dadi, ma, anche se salvo, più derelitto e più triste. […] giovane solo a metà, e vecchissimo l’altra metà, sarei ora disceso tra gli uomini. […] Uscire mi toccava dalla cruna dell’individuo per essere uno dei tanti della strada, che amministrano umanamente la loro piccina saviezza d’alito e d’anni. […] Per questo forse mi era stato concesso l’esonero: per questo io solo m’ero salvato, e nessun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza, se non delazione, d’una retorica e d’una pietà».

È del 1995 l’Ensaio sobre a cegueira, romanzo meglio noto come Cecità, del premio Nobel Jose Saramago. Anche qui si parla di un’epidemia che colpisce all’improvviso la popolazione, rendendola letteralmente cieca, capace solo di vedere davanti a sé una nube lattiginosa. Il panico si scatena e la lotta per la sopravvivenza fa emergere la vera natura dell’uomo: feroce, violenta e brutale. Non ci si fida di nessuno perché tutti sono disposti ad annientare il proprio simile pur di non perire. Vige la legge del più forte, così le persone infette, subito emarginate, vengono rinchiuse in un ospedale in cui di assistenza e sollievo non c’è traccia.

Sono carceri, dominate dal più forte, da colui il quale non ha scrupoli a sbarazzarsi di chi non gli serve, dove i deboli sono destinati a soccombere. L’unica figura positiva è la moglie del medico, fintasi cieca per stare vicina al marito. È lei la speranza per il gruppo di persone che si ribella all’autorità dei malvagi, conducendolo all’esterno dove purtroppo scopre che la cecità ha colpito anche in città. Saramago mostra uno scenario apocalittico in cui l’uomo non esce certo rinfrancato. Prevale l’istinto animale: la ragione, al di fuori della donna, è annientata.

C’è rassegnazione: è inutile lottare contro qualcosa che non conosciamo e che è più grande di noi. L’unico scopo è badare alle nostre esigenze, poco importa se calpestiamo quelle altrui. In Cecità l’uomo non ha alcun interesse a contrastare l’epidemia, ne è quasi indifferente. Opta per l’egoismo e la sopraffazione. Poi, un bel giorno, la cecità scompare e tutti tornano a vedere come prima. Alla fine la moglie del medico riflette: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono».

Terminiamo il nostro excursus con L’amore ai tempi del colera del colombiano Gabriel Garcia Marquez. È una storia d’amore esemplare, tra il caparbio Florentino Ariza e l’orgogliosa Fermina Daza. Un amore che attende cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese, prima di essere consumato.

Quando succede i due amanti sono ormai vecchi e il mondo intorno a loro è cambiato. I villaggi sono infestati dal colera. Florentino e Ariza compiono una crociera sul fiume, ma quello che si manifesta attorno non gli interessa. Anzi, ordinano al capitano di issare sull’imbarcazione la bandiera che indica la quarantena e quindi il divieto di avvicinarsi a ogni porto. Ecco il dialogo finale tra Florentino e il capitano. «Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, di nuovo verso La Dorada». «E fin quando crede che possiamo proseguire questo andirivieni del cazzo?». Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni con le loro notti. «Tutta la vita».

Boccaccio, Manzoni, Camus, Bufalino, Saramago, Garcia Marquez. Sei autori che hanno affrontato il tema dell’epidemia, non tanto nella sua centralità, quanto su come incide nelle azioni dell’uomo. A emergere è la paura che però abbiamo visto (almeno quella) si può sconfiggere. La speranza è che a breve questo virus finalmente se ne vada, come ci hanno raccontato Manzoni, Camus e Bufalino. Intanto possiamo provare a capire che non occorre scannarsi inutilmente. Leggere probabilmente non servirà a sconfiggere il Covid, ma può aiutare a conoscere chi abbiamo di fronte.

Massimiliano Muraro

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1 commento

  1. Interessante la proposta di letture, le più svariate. Ammesso chje il problema sia “la malattia” e non chi ha infettato la società. Io penso che la cura per il covid ci sia: sono trascorsi dei mesi dal massimo di virulenza e ora è innocuo come tutti gli altri virus (più o meno naturali che siano) .. per lo sterminio dei 3 quarti dell’umanità (progetto ufficiale e largamente noto) dovremo attendere: il covid-20 o 21 o qualche altro ritrovato dei sino-illuminati. Come lettura-breve suggerirei questo articoletto del 22.2.20 che riprende una intervista del 2009 a J.Attali (mentore di Macron):
    https://scenarieconomici.it/jacques-attali-una-piccola-pandemia-permettera-di-instaurare-un-governo-mondiale/

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