Tre giorni in bicicletta sulle strade del contrabbando, prima tappa: Aprica, Gavia, Foscagno, Eira

Una settimana fa esatta insieme all’amico Giacomo Pellizzari, con il quale l’anno scorso avevo compiuto l’anello dei 7 Majeurs sulle Alpi Marittime, sono partito direzione Valtellina per un’altra fuga dalla routine. In sella alle nostre biciclette, attrezzate con lo stretto necessario per stare via tre giorni, ci siamo lanciati sulle strade del ciclismo di contrabbando, su e giù per le montagne che separano l’Italia dalla Svizzera e dall’Austria. Invece che trasportare di frodo mercanzie varie, abbiamo fatto passare il confine alla nostra voglia di evasione, di libertà e di movimento.

È il sunto del Tabac Brevet, un brevetto non ufficiale (per ora) e perciò perfettamente in linea con la filosofia del viaggio in questione: di contrabbando appunto. È nato da un’idea di Giacomo al quale già un anno fa dissi che mi sarebbe piaciuto pedalare salite che non avevo mai fronteggiato. Pronti via, ci ha pensato lui più avvezzo di posti, a me fino a quel momento sconosciuti.

Un momento di tregua durante il viaggio

Abbiamo cambiato in corso d’opera, eliminando parte del percorso svizzero. Ciononostante i numeri dei nostri tre giorni non mentono: 390 km e 9.000 metri di dislivello, simili ma tutto sommato meno gravosi dei 7 Majeurs, 370 km e 10.700 metri di dislivello, chiusi in meno di due giorni. Nel Tabac Brevet hanno prevalso la lentezza, la solitudine (mitigata dalla certezza di contare comunque sull’altro), le riflessioni più o meno profonde. In altre parole la volontà di entrare in uno spazio e un tempo che sono nuovi rispetto a quelli del quotidiano. Il viaggio nella sua scarnificata essenza.

Questo breve racconto è diviso in tre parti, tante quante sono stati i giorni in sella alle nostre biciclette. Ne pubblicherò una al giorno, seguendo l’intervallo giornaliero del nostro viaggio: perciò oggi parlerò di quello che è successo martedì scorso e così via fino a giovedì.

Ciclismo di contrabbando

Il Tabac Brevet prima non esisteva. È stato Giacomo Pellizzari a inventarselo di sana pianta, coinvolgendo subito anche me che senza un minimo di esitazione gli sono andato dietro. Chiaramente non è scaturito dal nulla, ma dopo un confronto serrato fatto di uscite in bici, messaggi, telefonate e mail, che si sono susseguiti nell’arco degli ultimi mesi. Sono pigro lo ammetto, perciò voglio ringraziare pubblicamente Giacomo per essersi sobbarcato tutte le noie organizzative quali prenotazioni per i pernottamenti, creazione dei percorsi, individuazione dei punti critici.

Il logo del Tabac Brevet, ideato da Giacomo Pellizzari

Il Tabac Brevet consiste in un giro di più giorni in bicicletta sulle strade, anzi meglio, nelle zone che un tempo erano battute dai contrabbandieri. Più per necessità che per avventura (quella gliel’hanno aggiunta gli scrittori che ne hanno narrato le gesta) costoro oltrepassavano i confini per portare di nascosto, quindi in maniera illegale, generi che altrimenti sarebbero stati tassati e che poi venivano venduti al mercato nero. Per questa gente, già costretta a guadagnarsi ogni giorno un briciolo di spazio vitale in un ambiente ostile come quello della montagna, era un modo come un altro per sbarcare il lunario.

I prodotti più richiesti erano le sigarette e il tabacco, da qui il nome scelto da Giacomo. I luoghi d’elezione degli sfrusaduu erano quelli tra l’alta Lombardia, l’Austria e la Svizzera, le montagne dunque. In tanti sono rimasti incantati da questo modus vivendi. Tra questi c’è Davide Bernasconi, cantautore nato a Monza e presto trasferito con la famiglia a Mezzegra sul Lago di Como, che al contrabbando ha dedicato diverse canzoni, oltre al suo stesso nome d’arte: Van De Sfroos, cioè vanno di frodo.

Ricordiamo ad esempio la poetica Ninna nanna del contrabbandiere: «Ninna nanna, dorma fiöö / El tò pà el g’ha un sàcch in spala / E’l rampèga in sö la nòcc / Prega la loena de mea fàll ciapà / Prega la stèla de vardà in duvè che’l va / Prega el sentée de purtàmel a ca’» (Ninna nanna, dormi bambino ( Il tuo papà ha un sacco in spalla / E si arrampica nella notte / Prega la luna di non farlo prendere / Prega la stella che guardi dove va / Prega il sentiero di portarlo a casa).

O ancora La ballata del Cimino, leggendario contrabbandiere che piuttosto di farsi cogliere con le mani nel sacco rinuncia a tutto il suo carico gettandolo in fondo al lago e preferendo farsi passare per matto con le forze dell’ordine: «Ai tempi del Far West fra Sfrusaduu e Burlànda / Passàven sacch de juta e sigarett / Omen cumè aspis scundüü tra i rami e i sàss / Mai ciamàss per nömm mai fa’ frecàss / Ömen cun la facia segnada cume’l laagh / Ömen cargaa cumé lümaagh» (Ai tempi del Far West tra contrabbandieri e finanzieri / Passavano sacchi di iuta e sigarette / Uomini come aspidi nascosti tra i rami e i sassi / Mai chiamarsi per nome mai fare rumore / Uomini con la faccia segnata come il lago / Uomini carichi come lumache).

La bicicletta attrezzata per il bikepacking

Da quelle parti di sentieri ce ne sono a bizzeffe, la maggior parte dei quali oggi sono percorsi dai turisti in cerca di evasione, ma un tempo noti solo ai contrabbandieri che si guardavano bene dal parlarne ad altri. Io e Giacomo abbiamo scelto di costeggiarli sulle più comode strade asfaltate, ma non per questo meno impervie, con le nostre biciclette. In verità la nostra via per l’illegalità è durata solo due chilometri, cioè quando prima di Resia abbiamo deciso di ignorare il divieto di una ciclabile chiusa, salvo essere poi rimandati indietro da un gruppo di operai che stavano asfaltando la strada.

Non avevamo tabacco o alcool da trasportare, ma anche noi portavamo appresso un bel carico. Le nostre bricolle (le gerle usate dagli spalloni per contenere la merce) erano le sacche per il bikepacking, fissate dietro al sellino, che appesantivano non poco i mezzi e le nostre gambe, già affaticate al solo pensiero delle lunghe salite da affrontare. Le stesse predilette dal Giro d’Italia che su quegli scarabocchi grigi e pendenti ha scritto pagine memorabili di ciclismo.

Giorno 1: Aprica, Gavia, Foscagno, Eira

La prima non era poi così difficile, sebbene in corso d’opera ne avesse sostituita un’altra che solo a nominarla passavano voglia e poesia: il Mortirolo, la montagna che ha consacrato al mondo Marco Pantani. Tuttavia è bastato un breve scambio di opinioni per convincerci che farlo a gambe fredde ci avrebbe letteralmente demolito, specie in una tappa che prevedeva 140 km e 4.100 metri di dislivello. Meglio allora deviare verso la più facile Aprica, utile a scaldare i muscoli perché dopo arrivava il passo di Gavia dal suo lato nobile: lunghezza 17.3 km, dislivello 1.363 metri, pendenza media 7.9%, massima 18%.

L’Aprica, salita anonima ma utile a scaldare le gambe

Già dalla sera prima ad Arboredo di Teglio, nostro punto di appoggio per la partenza e l’arrivo, Giacomo mi aveva detto che l’Aprica era una salita insipida. In effetti aveva ragione, non ci sono particolari difficoltà, anzi in alcuni punti spiana pure, soprattutto prima del paese che dà nome al valico, situato a circa 1.200: tagliato dalla statale è circondato da anonime architetture di montagna che invitano a uno sbadiglio. Cerchiamo il cartello che segna il passo, ma non lo troviamo. Ci accontentiamo di una foto davanti all’arco che passa la strada. Da lì però si inizia a fare sul serio: picchiata su Ponte di Legno, ci attende il Gavia.

Il Giro d’Italia ci è passato la prima volta nel 1960 quando a domarlo ci pensò Charly Gaul, ma è il 1988 che lo ha reso epico: in quell’anno i corridori furono investiti da una bufera di neve che ne mise a dura prova la resistenza. In tanti ricordano l’immagine degli stinchi gelati di Hampsten che lì attaccò e si portò poi a casa la maglia rosa. Al termine di quella giornata da tregenda Jef Bernard disse che era contento di essere vivo. Altri per il freddo non riuscivano neppure a scendere dalla bici e a parlare. Da allora il Gavia è diventato uno spauracchio, sia per la sua difficoltà che per la probabilità di trovarci della neve, cosa che a maggio in alta quota non è certo da escludere.

E sì che il Gavia parte leggermente in discesa, quasi a invitarti, ma poi non ci vuole molto perché cominci a presentarti il conto: non all’imbocco vero e proprio, dove volendo si va su anche chiacchierando, ma quando la strada si restringe. È da lì che partono i muri più terribili, fino al 18% e per qualche km l’erta non molla mai. Le gambe si muovono per inerzia, la testa diventa un crogiolo di pensieri e il silenzio è rotto solo dall’arrancare della bicicletta e dal rombo delle moto che si sentono in lontananza e ti superano sfiorandoti. Però quando il bosco termina, dopo i 2.000 metri, si apre uno scenario unico. Toccare il cielo con un dito qui non è un eufemismo perché sembra di poterlo fare sul serio.

 

La buia galleria che conduce al passo di Gavia

Tra noi e la cima a un certo punto si frappone un altro ostacolo, come non bastasse la maledetta pendenza. È una galleria buia, una bocca gigantesca che pare voglia inghiottire gli sprovveduti che sono giunti fino a lì a sfidare la montagna. Per fortuna abbiamo le luci, ma pur con quelle non siamo ancora sicuri dove stiamo andando. Quella dietro serve a segnalare agli altri che esisti. Quanto vorresti in quegli interminabili istanti che arrivasse una macchina coi suoi fari a illuminarti la via. Quella davanti, debole la mia, comoda solo per non entrare dentro qualche buca perché per il resto è notte fonda in tutti i sensi. Sono 400 metri di ignoto che passano interminabili, non senza palpitazioni. Per fortuna quando se ne esce e si alza il naso al cielo si intravede il Rifugio Bonetta, mentre attorno il lago Bianco e il lago Nero nemmeno fanno caso a noi due. Foto di rito davanti al cartello e subitanea discesa, perché a 2.652 metri di altezza fa freddo.

Foto di rito al passo di Gavia

Sosta per mangiare a Santa Caterina Valfurva, paese natale della campionessa di sci Deborah Compagnoni, e via verso Bormio, ma mica per prendere lo Stelvio ché quello ci toccherà sia il secondo che il terzo giorno, bensì per attaccare il Foscagno dalla Valdidentro (2.291 metri), mai scalato né da me né da Giacomo. Non è una bella salita, anzi è anonima oltre che trafficata, ma è pedalabile, cioè non presenta troppi strappi. Anche il passo non ci comunica nulla.

Il cartello che indica il 10% sul passo Eira

Foscagno, mi fa venire in mente la parola fosco, cioè qualcosa di scuro e quindi triste e cupo. Insomma una di quelle salite che non ti viene più voglia di farla. Scolliniamo e per fortuna dall’altra parte troviamo tutt’altro paesaggio. Più aperto e anche più accogliente. Sarà che siamo in discesa e quasi alla fine della prima tappa, ma tutto appare migliore. C’è ancora l‘Eira (2.208 metri) da fare, ma è poco più che un muro, anche se si fa comunque rispettare. Fotografiamo un cartello che indica il 10% e così finisce il primo giorno. Dormiamo a Livigno, dopo aver mangiato una pizza di cui nemmeno ricordo il sapore.

Massimiliano Muraro

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