Maurizio Puccinelli: i Paesaggi ad acqua come testimonianza per il futuro

«Vorrei che fossero delle testimonianze per il futuro»: con queste parole ci accoglie Maurizio Puccinelli, protagonista della mostra Paesaggi ad acqua, ospitata sabato 1 e domenica 2 aprile dalla Libreria del Centro Culturale di Desana.

Un’antologica in cui Puccinelli ha selezionato una serie di dipinti, la maggior parte dei quali in piccolo formato, aventi come soggetto principale le risaie, elemento fondante del genius loci vercellese.

La tecnica adoperata è quella dell’acquerello, anche se a ben vedere è improprio definirla così. Puccinelli infatti ha lavorato perlopiù con inchiostri per illustratori, stesi su cartoncino colorato: «Parto da un colore di fondo che ho già – ci spiega – perciò di fatto mi devo adattare al supporto e alla carta che non è sempre quella ruvida, usata da chi utilizza l’acquerello nella sua purezza».

Dunque risaie, canali, argini, chiuse, uccelli e piante tipiche: ritratti non en plein air, secondo la moda impressionista, ma riadattati in studio dopo essere stati immortalati dal teleobiettivo e dal grandangolo della macchina fotografica di Puccinelli.

D’altronde quello del lavoro in studio è una sua deformazione professionale. L’artista infatti nasce come grafico e del grafico gli è rimasto quel vezzo di disegnare seduto al tavolino, ragionando quasi geometricamente sul da farsi. Dobbiamo compiere un salto indietro di qualche anno per scoprire che Puccinelli manifesta la sua attitudine attorno ai 18 anni.

Siamo a Torino nell’ufficio del padre avvocato che all’inizio prova a indirizzarlo sulla medesima strada. Tuttavia, dopo averlo fatto contento prendendo la laurea in Giurisprudenza, Maurizio ha energie solo per le sue vere passioni: l’arte e il disegno nella fattispecie. Un amico del padre nota che il più delle volte il giovane è intento ad arrovellarsi sui fogli bianchi anziché sui tomi di legge.

Un bel giorno gli chiede una cartella con quelli che reputa i suoi disegni migliori e la porta da vedere a un grafico di sua conoscenza, che aveva ideato i caratteri con cui si stampavano gli elenchi telefonici. Fortuna vuole che costui fosse anche il maestro di Carlo Malerba che di lì a breve sarebbe diventato un’icona del graphic design. «Lavorare con lui mi ha cambiato la vita», ci spiega emozionato.

Siamo nel 1976, anno in cui Malerba, entusiasta per l’avvento in Italia della Pop Art, dà vita a un progetto unico a Torino. Si tratta dello Yellow Submarine, negozio icona della città che si trovava nella centrale via Roma, il cui nome rimandava in maniera esplicita alla canzone dei Beatles, mentre gli interni richiamavano lo stile “psichedelico” dello statunitense Milton Glaser (suo il logo I love New York).

È con lo Yellow Submarine, pensato proprio come un sottomarino dentro Torino poiché si sviluppava sotto al livello stradale, che Puccinelli intraprende una proficua collaborazione, durata poi dieci anni, con Carlo Malerba il quale, dopo aver visto la perizia con cui Maurizio aveva realizzato alcuni pannelli in stile western che gli aveva commissionato per metterlo alla prova, decide di arruolarlo nel suo team che di lì a qualche anno sarebbe diventato lo studio Carmadesign.

Sono anni di intenso lavoro per Puccinelli che, tanto per fare un esempio, è tra i creatori del nuovo marchio della Iveco, la società specializzata nella produzione di veicoli industriali nata nel 1975. Poi i dealer per i concessionari, per le fiere, per le mostre e per gli allestimenti. Tra i suoi clienti Sambonet, Zucca e altre aziende di Vercelli e di Biella.

«Con Malerba e poi da solo – racconta – curavo la presentazione del piano grafico, dal bozzetto alla colorazione. Erano gli anni d’oro del design, dei vari Castiglioni, Sottsass, Magistretti. Figure come la mia erano sempre più richieste. Si imparava lavorando, non c’erano scuole, quelle sarebbero venute poi dopo. Noi tutti ci formavamo sul campo». Come voleva la filosofia del Gruppo Memphis aggiungiamo noi.

Parallelamente alla sua professione, Puccinelli si cimenta col golf (dedica alcune sue opere a questo sport) e sperimenta una tecnica che si avvicina all’acquerello, ma – abbiamo detto – proprio puro acquerello non è. Una tecnica che lo costringe a stare entro una certa dimensione che non raggiunge mai il grande formato, ma che, in questa maniera, gli consente di veicolare una sua intima poetica.

A una prima osservazione i dipinti di Puccinelli sembrano delle fotografie, tanta è la perizia tecnica del suo autore, ma non lo sono. Sarebbe altresì sbagliato definirli iperrealisti perché da vicino si nota con evidenza la delicatezza del tratto che non vuole imitare pedestremente la realtà.

«Alcuni miei colleghi dicono che il figurativo bisogna renderlo moderno altrimenti sembra di stare ancora nell’Ottocento». Le soluzioni che adotta Puccinelli per evitare l’effetto “cartolina” sono obbedire al supporto – in questo caso formato e colore del cartoncino di cui già si diceva – e rinuncia alla semplice descrizione per avvantaggiare l’emozione e il messaggio che si vogliono trasmettere.

Nel caso di Paesaggi ad acqua è – si perdoni il gioco di parole – l’acqua che rischia di non esserci più e che, almeno fino ad ora, ha accompagnato le nostre esistenze come componente imprescindibile. «Attorno eravamo abituati a vedere acqua ovunque, penso alle risaie allagate, ma non solo. Adesso non è più così. Siamo di fronte a una svolta epocale. I nostri nipoti non vedranno più i panorami che ci hanno visti nascere e crescere. In tal senso vorrei che i miei acquerelli fossero un documento per le future generazioni».

Non è certo un caso se Maurizio Puccinelli ha deciso che nella sua mostra la prima cosa che si incontra non è un quadro, ma una poesia di Giorgio Sambonet: «Io sono di qui / di questa terra / e di queste acque. / Di tutte le erbe / di fosso e fango grasso / che profuma». Il poeta e con lui Puccinelli e tutti noi pure, diciamo: queste sono le terre d’acqua. Facciamo sì che non si arrivi a dire «queste erano le terre d’acqua».

Massimiliano Muraro

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