Alla Mondadori la rivoluzione su due ruote di Peter Sagan secondo Giacomo Pellizzari

Facebook, Twitter, Instagram, YouTube. E poi ancora Strava e Zwift. Infine Walter Benjamin. Cosa c’entra tutto ciò, in particolare il filosofo tedesco, col ciclismo? C’è un solo modo per scoprirlo: leggere “Generazione Peter Sagan. Una rivoluzione su due ruote” (66thand2nd), l’ultimo libro di Giacomo Pellizzari che sarà presentato sabato 5 alle 18 al Mondadori Bookstore di Vercelli.

Come spiega l’autore, che tra le altre cose è uno dei fondatori di Bike Channel, il canale tematico di Sky diventato in breve tempo un punto di riferimento per gli appassionati di ciclismo, non si tratta di un libro “su” Peter Sagan, ma un libro “attorno” a Peter Sagan.

Si scordi il lettore di trovare i racconti delle vittorie riportate dal campione slovacco, tre volte di fila iridato (Richmond 2015, Doha 2016 e Bergen 2017, primo corridore nella storia a centrare il tris consecutivo), due classiche Monumento come il Giro delle Fiandre (2016) e la Parigi-Roubaix (2018), sette volte maglia verde nella classifica a punti del Tour de France più altri svariati trionfi.

“Generazione Peter Sagan” non è neppure una biografia. I pochi episodi della sua vita privata sono funzionali a dimostrare la nuova filosofia che lui stesso ha applicato a questo sport, contribuendo a svecchiarne l’immagine, fondata per tradizione sul postulato di: sacrificio, fatica e sofferenza. Ecco, Sagan sovverte le regole precostituite del ciclismo, portandolo nel giro di pochi anni nell’era contemporanea, della connessione, della condivisione e – perché no? – del divertimento.

Il ciclismo, specie in Italia, fin dagli albori si è prestato alla narrazione epica delle sue gesta e di quelle dei suoi campioni. Binda, Coppi, Bartali, Magni, Anquetil. Gimondi, Merckx, Hinault, Indurain, Pantani sono gli dei che regnano nell’Olimpo del ciclsimo; Brera, Mura, Vergani, Soldati, Fossati, Ortese, Buzzati i suoi aedi.

Nei racconti di costoro il ciclista diventava argilla facilmente malleabile per essere modellata a uso e consumo nella costruzione di storie dove gli eroi erano novelli Prometei che lottavano con ardore e furia cieca contro la natura matrigna, avendo come uniche armi le loro gambe e la loro determinazione e come unico compagno di avventura un cavallo di acciaio a due ruote, benedetto o maledetto a seconda dei casi. Pagine di alta letteratura sono scaturite, come il Coppi di Brera o il Pantani di Mura, tanto per citare due esempi.

Col passare del tempo però, tale immagine si è cristallizzata, è divenuta statica, oseremmo dire quasi retorica. Ecco allora che arriva Peter Sagan e con lui Giacomo Pellizzari il quale intuisce la portata rivoluzionaria del fenomeno slovacco, capace di sovvertire i principi della comunicazione. Entrambi, chi in sella a una bici, chi con la penna in mano (anche se nel caso di Giacomo sarebbe meglio dire con smartphone e pc) ci dicono che il ciclismo non deve per forza di cose fare rima con sacrificio, fatica e sofferenza, ma è anzitutto piacere e, in qualche caso, panacea degli stress che quotidianamente ci portiamo appresso.

Tra i tanti passi del libro ce n’è uno che mi ha colpito e che, a mio modo di vedere, ne riassume l’essenza. Perciò vorrei riportarlo per intero: «Il ciclismo è un mondo abituato a tenersi ben stretto il proprio passato. Ama celebrare le sue gesta sacre e antiche. Ama compiacersi, e questo ci può pure stare, quello che però mi fa arrabbiare è che spesso lo fa in maniera auto-commiseratoria e vagamente vittimista. Per lenire i dolori di un presente che sarebbe divenuto irrimediabilmente anonimo e avaro di emozioni, abbondano gli “eh, signora mia, non ci sono più i ciclisti di una volta!”. Già, è vero, non ci sono più. Dunque, inutile mettersi sull’uscio ad attenderli di nuovo. Non torneranno. Un nuovo Pantani, per restare nel nostro Paese, non ci sarà mai più. A cercarlo troppo correremmo il rischio, semmai, di perderci qualcosa di nuovo, e coinvolgente».

Intendiamoci, non è che Pellizzari, nella sua operazione dalle tinte futuriste, neghi recisamente la storia e neppure ne desidera fare tabula rasa (in questo è lontano anni luce dai seguaci di Marinetti lo garantiamo). Molto più semplicemente la prende come un dato di fatto, consapevole che però essa procede e che non si ferma, perciò ostinarci a volerla interpretare sempre con ricordi nostalgici non serve a nulla. Soltanto a non farci apprezzare il presente in cui la storia, in questo caso del ciclismo e, nella fattispecie di Sagan, si svolge.

Così, se Sagan vive il ciclismo in maniera guascona, perché non possiamo farlo anche noi? Finalmente determinati a capire che questo sport, così come ogni aspetto della nostra vita, può avere nel suo costrutto la leggerezza calviniana e può senza alcuna vergogna utilizzare strumenti attuali, come lo sono i social network e tutto quel che ne consegue. E Peter Sagan li utilizza, eccome! Pellizzari ci porta esempi illuminanti che parlano della sua “attitude” a essere un personaggio, anzi il personaggio per eccellenza del ciclismo moderno.

Così vediamo Sagan che spettacolarizza il suo matrimonio stile “Grease” e annuncia poi la sua separazione su Instagram; che è protagonista di filmati creati ad hoc per promuovere la bicicletta su cui corre o la marca di occhiali che adopera abitualmente; che impenna; che firma autografi mentre è in corsa.

Il bello di tutto ciò è che i suoi followers lo emulano e seguono la sua stessa filosofia di vita: pedalano, cercano di ripetere le sue evoluzioni, si vestono come lui. Soprattutto si fanno selfie mentre sono in bici, condividono, mettono like, registrano la loro prestazione su Strava (il social dedicato ai ciclisti, ai runner e ai triathleti) per far sapere agli altri di aver compiuto una loro piccola impresa, fosse anche scalare la collinetta dietro casa.

Non a caso il sottotitolo di “Generazione Peter Sagan” è “Una rivoluzione su due ruote”. Perché quello ha fatto lo slovacco «un campione vero ma anche un tipo molto cool, uno che sa divertirsi e rifiuta istintivamente il mito della sofferenza in bici. Proprio questo lasciarsi dietro le spalle l’immaginario doloroso e nostalgico del ciclismo è forse la chiave del suo straordinario successo, anche fuori dai confini della disciplina», si legge nel risvolto di copertina del libro.

L’immaginario doloroso e nostalgico è quello che Pellizzari, citando Walter Benjamin, scrive essere ammantato di un’aura che il filosofo definisce come «la percezione di una lontananza, per quanto vicina». Benjamin ne parla nel saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, riferendosi a ciò che si prova quando ci troviamo davanti a un quadro o a una scultura in un museo. Ce l’abbiamo a pochi centimetri, ma ci appare come lontana appunto, sebbene la stiamo osservando “hic et nunc”. Una sindrome di Stendhal fenomenologica.

Con il ciclismo è lo stesso processo, soprattutto riguardo alla sua epoca eroica che ne ha cementato il mito. Mito peraltro sopravvissuto in modo molto perentorio come si è visto. Sagan sembra essere alieno da tutto ciò. Sa però che lui negli annali di questo sport ci è già entrato a pieno diritto. Per certi versi è più una rockstar che un corridore, anzi, per dirla tutta è un corridore rockstar. Proprio quello cioè di cui aveva bisogno il ciclismo per attuare la sua rivoluzione.

Massimiliano Muraro

Giacomo Pellizzari e giornalista sportivo e scrittore. È stato direttore editoriale di Bike Channel, canale di Sky dedicato al mondo a due ruote. Scrive per la rivista “Cyclist” Italia e collabora con numerose testate, tra cui l’americana “Peloton” magazine. Il suo blog, Confessioni di un ciclista pericoloso, e uno dei piu seguiti dagli appassionati della disciplina. Nel 2014 e uscito il suo primo libro, “Ma chi te lo fa fare? Sogni e avventure di un ciclista sempre in salita”, seguito da “Il carattere del ciclista” (2016), “Storia e geografia del Giro d’Italia” (2017) e “Gli italiani al Tour de France” (2018). Sua la voce “Giro d’Italia” nell’edizione 2017 del Libro dell’anno Treccani.

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