«Una realtà di carne», così Giovanni Testori scriveva nel 1964 a proposito della Cappella XXXVIII del Sacro Monte di Varallo. Lo scrittore milanese si riferiva allo strepitoso gruppo plastico della Crocifissione di Gaudenzio Ferrari. In Meditazioni vecchie e nuove sulla “Croce”, Testori insisteva sul fatto che la resa espressiva di Cristo e di tutti i personaggi della scena, qui sculture lignee policrome, non era dissimile in pittura. In pratica che non importava la tecnica adoperata, quanto la capacità di Gaudenzio nel rappresentare in maniera tanto efficace il momento più drammatico della vita di Cristo, che prelude a quello più colmo di speranza, vale a dire la Resurrezione.
Tuttavia, qui ci interessa soffermarci sulla Crocifissione, un soggetto che incontriamo diverse volte nella vasta ed eterogenea produzione gaudenziana. Se in scultura abbiamo la Cappella di Varallo come summa del gran teatro montano, in pittura abbiamo più esempi ai quali appoggiarci, tenendo però sempre ben presente l’insegnamento di Testori, cioè di non separare Gaudenzio scultore da Gaudenzio pittore.
A ragion veduta è assodato che secondo i vercellesi la Crocifissione per antonomasia di Gaudenzio è quella che si trova nella cappella con le Storie della Maddalena in San Cristoforo. Non dimentichiamo che essa ha un precedente, sempre dello stesso autore, a Varallo, sul tramezzo della chiesa di Santa Maria delle Grazie dove il supplizio finale di Cristo è il momento culminante del ciclo con le Storie della sua vita. Ma, come vedremo, Gaudenzio Ferrari ritornerà spesso a occuparsene.
Il tema della croce per Gaudenzio è significante e segnante. Lo è per lui, ma lo è anche per noi poiché è osservando le varie Crocifissioni che riusciamo ad avere un quadro chiaro di come l’arte piemontese muta nell’arco di pochi decenni. Ed è curioso notare che una delle prime opere giovanili attribuita all’artista è proprio una Crocifissione, tempera e olio su tavola del 1498, conservata alla Pinacoteca Civica di Varallo. È un dipinto sobrio nella sua composizione: il Cristo, di chiara derivazione lombarda, non ha lo slancio che troviamo invece negli esemplari posteriori. Siamo qui lontani dal caos di persone che si affolla sul Calvario. Nelle figure al di sotto della Croce c’è più stupore che dolore, solo la Maddalena abbraccia il legno, mentre Maria appare assorta in una preghiera utile a dare senso all’ineluttabile destino del figlio.
Sono del 1513 i lavori in Santa Maria delle Grazie, anticipati di qualche anno dagli affreschi della Cappella Scarognino, primo esercizio pittorico dopo il ritorno del viaggio a Roma. L’imponente affresco è dominato dalla Passione che, secondo quanto scrive Venturi, rivela «il plastico abituato a comporre statue policrome». In verità la plastica, o se vogliamo la tridimensionalità, è tangibile negli stucchi in rilievo che modellano gli orpelli di alcuni personaggi: aureole, caschi, scudi e bardature.
Siamo all’antitesi della Crocifissione della Pinacoteca Civica, quasi avessimo dinanzi un altro artista: la scena è ricca di persone e di particolari, le tre croci si ergono sull’insieme ed evidenziano l’episodio, ammantandolo di solennità quasi fin troppo teatrale ci verrebbe da dire. È il sunto dell’arte piemontese, ormai proiettata nel Rinascimento, ma è anche il punto di partenza per l’autonomia linguistica cercata da tempo. Serviva solo una scintilla per accendere la miccia. La deflagrazione porta il nome di Gaudenzio Ferrari.
Proseguendo cronologicamente ecco altre due Crocifissioni, entrambe attribuite a Gaudenzio da Testori durante la mostra del 1956 al Museo Borgogna. La prima è giudicata un passaggio tra gli affreschi di Santa Maria delle Grazie e la fine del secondo decennio del XVI secolo, ma anche come una fase di studio della poetica di Bramante, mediata da nuance liguri e da intuizioni prese dal tedesco Dürer, sebbene – è il giudizio di Testori – «ben suo è il modo di costruir le figure accarezzando la materia, così da suscitare su di esse un’affettuosa esitazione di sentimenti e di luci». La scena è più partecipata, ariosa (alle spalle è ben visibile il paesaggio) e si arricchisce di elementi che poi saranno ricorrenti, come ad esempio i due angeli che raccolgono nei calici il sangue che sgorga dalle ferite ai polsi di Cristo.
La seconda Crocifissione, cosiddetta Parisi (già esposta a Torino nel 1939 in Gotico e Rinascimento in Piemonte), quasi coeva alla precedente, è di fatto un’anticipazione di quel che farà Gaudenzio al Sacro Monte, a San Cristoforo e nell’esemplare della Galleria Sabauda. L’autore porta Cristo a un piano più terreno, quasi possa essere toccato dalle numerose figure che lo circondano. Anche la gestualità della Vergine e di Maddalena è più accentuata rispetto a prima. In secondo piano i personaggi che popoleranno le pareti della chiesa vercellese, come i soldati e i cavalli.
Passiamo allora in San Cristoforo dove Gaudenzio dà prova della sua smisurata abilità di pittore, prima con la Madonna degli Aranci e poi con le due Cappelle laterali. L’opera che qui ci interessa si trova a fianco di quella con le Storie della Maddalena che vediamo se ci spostiamo nella navata di destra. L’attività dell’artista a Vercelli si attesta tra il 1529 e il 1534, un lustro durante il quale egli spazza via la polvere depositata sul tavolo dell’arte locale, rinnovando in tutto e per tutto un repertorio che da qualche anno aveva già in sé tutte le prerogative per spiccare il volo e parlare una lingua propria che non fosse il solo circoscritto vernacolo.
Nel dipingere la Crocifissione Gaudenzio si trovò subito ad avere a che fare con un problema: la parete troppo stretta e alta che non permetteva troppi voli pindarici. Lo risolse innalzando le tre croci e dividendo la superficie in due piani ben distinti. Sotto «l’accalcarsi parossistico di uomini e cavalli in uno spintissimo, quasi disturbante primo piano» (Edoardo Villata); sopra Cristo, figura centrale, che domina tutto e che fa da congiunzione tra cielo e terra. Da notare i due angeli che raccolgono nei calici il sangue, soluzione già collaudata in precedenza. Villata osserva che, se la luce grigia che ammanta tutto è un omaggio al Bramantino, gli incarnati e le ombre sono una meditazione sul Correggio della Cappella Del Bono in San Giovanni Evangelista, segno di un possibile viaggio di Gaudenzio a Parma.
Ora occorre spostarsi a Torino e più precisamente alla Galleria Sabauda. È lì che troviamo la Crocifissione da molti considerata uno dei massimi capolavori della carriera dell’artista di Valduggia che la realizza attorno al 1534, vale a dire più o meno dopo aver terminato il cantiere di San Cristoforo. È la sintesi della ricerca di Gaudenzio che qui fonde mirabilmente l’arte piemontese, da lui già contaminata con influenze romane (Perugino, Signorelli, Filippino Luippi), e quella lombarda (Leonardo, Bramante), di cui segna un altro inizio, più orientato verso la Maniera.
Scrive infatti Giovanni Testori che «ogni studio sul manierismo del Nord Italia deve se non partire, certo passare da questa tempera e farne i conti dovuti: in essa sono preannunciate soluzioni non solo formali, ma di disagio umano e religioso, che dureranno decenni, fino cioè alla tetra maturazione del Cerano, del Morazzone, del Tanzio e del Del Cairo». La Crocifissione della Sabauda è sì rinascimentale, ma comincia ad avvertire un qualcosa che da lì a breve rivoluzionerà l’arte cristiana: la Controriforma.
Nella tavola Gaudenzio schiaccia letteralmente la scena. Scompaiono i due ladroni, la croce non è visibile nel suo intero perché la parte superiore è fuori quadro, facciamo giusto in tempo a leggere la scritta INRI. La pelle di Cristo è di una materia quasi soffice che non lascia intendere sofferenza. Egli è circondato da quattro angeli, due per lato. Il cielo nuvoloso racconta la tragedia che si sta consumando, forse più che l’espressione e le pose dei personaggi. In basso c’è un’autentica torma: il soldato che lo tortura con la lancia, altri uomini a cavallo, quelli a destra riccamente vestiti. In primo piano la Maria svenuta non ha la mollezza e la partecipazione di quella in San Cristoforo, ma è più rigida, e così anche la Maddalena. C’è pathos, ma è contenuto.
L’ultima Crocifissione è a Milano, nella Cappella di Santa Corona in Santa Maria delle Grazie, celebre perché il suo refettorio conserva il Cenacolo di Leonardo Da Vinci. Era gestita dalla Confraternita di Santa Croce che offriva assistenza ospedaliera ai più bisognosi. Per la sua decorazione furono scelti Gaudenzio Ferrari e Tiziano Vecellio. Gaudenzio realizzò, oltre alla Crocifissione, un Ecce Homo e degli Angeli, posti nelle vele.
Anche in questo affresco Gaudenzio dovette fare i conti con la parete, al pari di San Cristoforo, ma se allora l’artista lavorò su una forma rettangolare, a Milano fu ancora più in difficoltà, essendo la superficie ogivale. Optò quindi di “schiacciare” i due ladroni facendoli convergere verso Cristo e aggiungendo anche degli angeli, quasi a dover risolvere un horror vacui. Stesso discorso per la parte inferiore che non presenta novità di rilievo, con tutti i personaggi canonici già visti nelle altre Crocifissioni. La possiamo considerare come il colpo d’ala di Gaudenzio che si sta avviando verso la fine della sua carriera. Quest’opera infatti è datata tra il 1540 e il 1542, ovvero pochi anni prima della morte, avvenuta nel 1546.
Parafrasando Giovanni Paolo Lomazzo che nell’Idea del tempio della pittura del 1590 pose Gaudenzio Ferrari tra i sette governatori, possiamo affermare che «chi non ha veduto quel sepolcro (nel nostro caso diremmo quelle Crocifissioni), non può dir di sapere che cosa sia la pittura e qual sia le vera eccellenza di lei». Un elogio certo, ma altresì un invito a chi volesse avvicinarsi a Gaudenzio per tessere la sua tela «tra visi di creta-carne e di carne-creta» e conoscere in tal modo un artista che al pari di pochi altri ha saputo offrirci una visione unica della vita di Cristo e più in generale dell’arte.
Massimiliano Muraro