Ötztaler, la magia di un sogno tutto all’insù

Ötztaler Radmarathon 2021 (credits Media Ötztal)

Ci sarebbero molti punti da cui partire per raccontare l’Ötztaler Radmarathon, la granfondo ciclistica più dura d’Europa con i suoi 230 km e, soprattutto, i suoi 5.500 metri di dislivello. Chiunque l’abbia chiusa o abbia provato a farlo ha il suo. Io voglio cominciare dalla sua conclusione: dalla maglia da finisher, il riassunto tangibile di chi ha compiuto la sua personale impresa.

Consegnata solo dopo aver completato l’anello infernale di Sölden, è il premio più ambito dai 4.000 pellegrini pedalanti (quest’anno 4.122 con 591 italiani) che si danno appuntamento alle 6.30 del mattino nell’ultima domenica di agosto. Questa edizione per loro ha ancora più valore perché dal 2023 la data cambierà: si passa al 9 luglio per problemi legati ai permessi di transito con le amministrazioni. Un peccato perché così viene a mancare un po’ di quel fascino legato all’incertezza del meteo: Pioverà? Non pioverà? Mi vesto leggero o pesante? Ma se mi vesto pesante e poi fa caldo come faccio? E se mi vesto leggero e poi fa freddo?

Tutte domande che assillano la mente dei partecipanti nei giorni che precedono l’evento. Vero è che sui passi c’è un servizio che consente il cambio abiti. Basta metterli in un sacco che si affida all’organizzazione e poi scegliere dove trovarli: Küthai, Brennero, Giovo o Rombo. Tuttavia cambiarsi in corso d’opera lascia per strada un po’ di quell’epos che tutti qui cercano, dunque alla fine, a meno che le condizioni siano pessime come successo lo scorso anno, la maggior parte si tiene il vestiario scelto all’inizio.

E poi pensiamoci bene: l’uomo del Similaun, quello trovato per caso da una coppia di escursionisti tedeschi il 19 settembre del 1991 e miracolosamente conservato dopo oltre 5.000 anni (più o meno il dislivello dell’Ötztaler) su un ghiacciaio proprio sopra Sölden, mica si era posto questo tipo di problema. Lui è diventato leggenda quasi per caso, neppure ci pensava. I ciclisti dell’Ötztaler vogliono esserlo solo per un giorno, per arricchire la propria storia di un’esperienza unica. Due realtà distanti nel tempo, eppure per molti versi così vicine.

PhotoCredit: EXPA/ Johann Groder

Tornando alla gara, quest’anno il tempo è stato clemente. Un po’ di pioggia sul Giovo, qualche goccia sul Rombo e per il resto temperature perfette per pedalare. Niente a che vedere con l’edizione 2021 con il freddo, la tempesta e quella maledetta salita in più aggiunta per aggirare la prima parte del Küthai, resa inagibile da una frana: 9km al 10,5% medio di pendenza. Ricordo che erano venuti 5.800 metri di dislivello, che quando l’ho letto sul mio ciclocomputer nemmeno ci credevo.

Oddio, non che quest’anno sia andata tanto diversamente con le due deviazioni prima di Innsbruck e a Vipiteno, velenosi strappi adatti più a una Classica del Nord che a una tappa di alta montagna, ma tant’è. L’animale ciclista sbuffa, impreca e maledice, ma poi costi quel che costi porta sempre a compimento il suo tragitto. Salvo infortuni o guai meccanici s’intende.

Partenza come detto alle 6.30 dalla strada principale che taglia Sölden. Quest’anno, sempre insieme al mio amico Giacomo Pellizzari (a proposito date un’occhiata al suo blog Ciclista Pericoloso e troverete un racconto a puntate per conoscere meglio l’Ötztaler con il piglio del letterato), potevamo pure partire davanti, il che significa guadagnare qualcosa in termini cronometrici. Non molto, ma vuoi mettere essere trascinato dal gruppo ai 50km/h senza fare fatica fino a Ötz? Invece ci tocca andare a fondo griglia perché ci siamo svegliati tardi.

Verso il Rombo (credits Media Oetztal)

Sono nervoso, soprattutto perché per me quest’anno è un’incognita. Non ho l’allenamento in salita del 2021 e questo mi spaventa, ma ho la testa e la volontà di finirla. Anche strisciando. Pronti via, i primi 30km se ne vanno che è un piacere e non fa neppure freddo. Taci che ho azzeccato l’abbigliamento.

Mi fermo per togliermi la mantellina (non sono bravo come i prof che lo fanno in sella, io cadrei rovinosamente senza appello), svolta secca a destra e inizia il Küthai. La prima parte non la conosco (come detto nel 2021 è stata evitata), ma vedo subito che attacca senza pietà. Pendenze a doppia cifra, strada stretta e intasata. Come non bastasse davanti ho uno che pedala con rapporti duri quindi è sempre in piedi, ciondola e pare cada da un momento all’altro. Un elemento di disturbo per chi come me preferisce mulinare agile. Appena la carreggiata si allarga lo supero ed ecco che arrivano sia l’ambulanza che la vettura dell’assistenza meccanica a creare ulteriore ingorgo. Niente, mi rassegno e vado piano, anche se sento di averne abbastanza per spingere, ma è meglio così. Tutte energie risparmiate per dopo.

Scolliniamo a 2.020 metri e ci lanciamo in una discesa di 26 km in cui la bici raggiunge ben oltre gli 80km/h senza accorgersene. Scendere è un duro esercizio mentale perché a quelle velocità su due ruote larghe al massimo 3 cm è un attimo finire gambe all’aria. Infatti alla fine del serpentone ho il capogiro.

C’è la prima deviazione inserita da quest’anno, temuta da parecchi. Non a caso perché l’asfalto si arrampica per 3 km tra il 10 e il 12%. Brusca e inesorabile perché attacca subito senza troppi fronzoli.

Da lì il cammino verso Innsbruck è pure noioso. Mi metto a ruota di un gruppo che viaggia ai 35 orari e in un amen imbocco il Brennero. Faccio la fesseria di fermarmi a togliere la mantellina e perdo le ruote che mi avrebbero fatto comodo. Sì perché il Brennero è un lungo falsopiano: 37 km e 700 metri di dislivello, concentrati praticamente da Gries in poi. Devo in ogni modo trovare almeno un drappello che tiri il giusto. Ne aggancio uno, poi lo supero perché per me è troppo lento, ne trovo un altro e così via fino allo scollinamento dei 1.377 dove ritrovo Giacomo. Ci guardiamo, scambiamo due impressioni, ben sapendo che il bello deve ancora venire.

Giù dritti come fusi verso Vipiteno, altra deviazione con punte del 16% ed ecco che ci tocca il Giovo: 15 km molto regolari sempre tra il 7 e l’8%. Sono le salite che fanno per me. Già nel 2021 lo avevo concluso bene, ma quest’anno faccio addirittura meglio. Giacomo invece lo soffre sempre e non ho mai capito il perché. Non mi fermo al ristoro per due motivi: primo perché piove, secondo perché è posto a circa un km dai 2.090 della vetta. In pratica ti fermi a mangiare e a bere, poi devi ripartire: non bene per le tue gambe.

Discesa molto tecnica che in una tappa del Giro Pantani affrontò volando. Io comincio ad avere male alla schiena e i riflessi rallentati, perciò tiro i freni e sto molto molto attento. Si perdono circa 1.300 metri di quota e si arriva a San Leonardo in Passiria. Per ora abbiamo percorso 170 km e scalato 3.500 metri di dislivello. Che basterebbero e avanzerebbero.

Invece no! A San Leonardo i volti dei pellegrini sui pedali si fanno scuri, nessuno parla, qualcuno si vota ai Santi e preferirebbe girare a sinistra per scendere a Merano e farsi una birra. San Leonardo invece obbliga ad andare a destra per prendere sua maestà il Rombo, che io preferisco chiamare nella variante in lingua austriaca perché mi sembra più altisonante: Timmelsjoch. Confine tra Italia e Austria, il valico è posto a 2.509 metri sul livello del mare.

PhotoCredit: EXPA/ Johann Groder

Ecco cosa ci attende. Non il Paradiso, ma altri 29 km e 1.800 metri tutti col naso all’insù. Le energie sono al lumicino, in più mentre attraversiamo San Leonardo leggo su un’insegna che ci sono 36 gradi e io soffro terribilmente il caldo. Infatti, come volevasi dimostrare, da Moso fino al rifornimento di Schonau sono piantato come un cancello. Non vado avanti nonostante gel energetici e bevande rinvigorenti (corredo necessario per chi va in bici e a maggior ragione se ha intenzione di cimentarsi in follie del genere).

Giacomo mi passa, per lui il Rombo è come un fratello, gli vuole un bene dell’anima e si vede. Al ristoro gli dico di proseguire da solo, io devo fare rifiatare le gambe e i polmoni. Mi prendo cinque minuti e mi scolo una Red Bull Cola che per l’ennesima volta mi salva la vita e rimette in sesto quei pochi pezzi che mi occorrono per gli ultimi dieci km di salita, i più belli, i più magnetici di tutto il Rombo.

Tornanti su tornanti dove il panorama si apre verso orizzonti dove il verde delle ultime conifere lascia spazio al grigio pietroso e lunare. È lì, oltre i 2.000 metri, che nelle curve garriscono al vento le maglie lacerate delle passate edizioni. Sono ammonimenti? Incitamenti? Presagi? Forse è un mix di tutto ciò. Quel che è certo è che incutono rispetto. Sono lì a dirti che l’Ötztaler pretende ed esige rispetto. Saprà darti tanto, ti cambierà, ma non osare mai darle del tu. Solo del lei e anche con riverenza. Altrimenti saranno dolori.

Il tunnel, passato quello praticamente è fatta!

Nel frattempo che si pensa a tutto ciò ci si para davanti il tunnel. Non un tunnel qualsiasi, bensì quello che chiude le sue porte alle 20 per riaprirle alle 7. Eh sì, non dimentichiamoci che il Rombo è un passo di confine tra due Stati. Lungo 500 metri, dritto, umido e dotato di una eco da fare invidia a una valle, accoglie le urla di gioia di chi lo attraversa. Se passi il tunnel in pratica ce l’hai fatta.

Che poi non è vero dato che dopo qualche km di picchiata, anche qui a velocità inimmaginabili, c’è l’ultimo piccolo scoglio. I 2 km della Mautstelle (Dogana) che però per fortuna non mi lacerano le gambe con i soliti crampi. Passata anche quella è davvero finita, la testa è al traguardo, al pianto liberatorio e al tifo della gente che accoglie te e tutti gli altri come piccoli eroi per un giorno. Il termine dell’Ötztaler.

Avevo iniziato questo racconto dalla fine, voglio finirlo dal principio o quantomeno dal leitmotiv che ci ha tenuto compagnia. Lasciando il posto d’onore alle persone che ai bordi della strada applaudono, incitano con le loro grida e i loro campanacci questa grande festa del ciclismo. Sono ovunque, a Sölden, a Ötz, a Innsbruck, a Vipiteno, a San Leonardo e in tutti i paesi che attraversa il percorso. Sono loro, sono i bambini che allungano la mano per farsela battere da chi passa a dare la forza di concludere la Ötzy, come la si chiama amichevolmente.

All’arrivo ho visto scene che descrivere risulterebbe molto difficile, bisogna viverle. Io stesso ne sono stato attore: pianti, sorrisi, c’è chi stramazza al suolo, chi va subito a bersi una birra, chi trema, chi alza il pugno. Tutti hanno vinto in egual misura. Qui si aspetta fino alle 20.30 anche l’ultimo arrivato, al buio, scortato da due macchine.

Sì, l’Ötztaler è proprio finita. Guardo Giacomo, guardo Alessandro, ci abbracciamo stravolti e sul subito neanche ci pensiamo a ripeterla. E come noi avranno fatto gli altri due vercellesi in gara: Francesco Ravera, al suo battesimo dell’Ötzy, felice come un bambino, e Gianfranco Zacchi, 68 anni soprannominato il Professore che ha portato a casa la sua settima edizione a vent’anni dalla prima con una costanza e una passione da fare invidia a un giovane.

Ora abbiamo un solo chiodo fosso: corriamo a ritirare la maglia da finisher e stasera usciamo a cena con quella. Solo che… Il giorno dopo e quello dopo ancora, quando il corpo ancora ci sta domandando a cosa diamine lo abbiamo sottoposto, mando un messaggio ai miei compagni: “Io comunque non vedo l’ora di rifarla”. Vai a capire la magia dell’Ötztaler!

Massimiliano Muraro

Il giorno dopo con la maglia da finisher al Passo Rombo
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