Il Teatro nel sangue – Sandro Gino: “Mi spaventa un mondo dove tutti la devono pensare allo stesso modo”

Vercelli viene spesso definita “Città d’Arte” per via delle molteplici bellezze che lacaratterizzano, come la sua architettura, gli archivi storici, i musei, le tradizioni folcloristiche, la musica e molto altro ancora. Tra le mille sfaccettature all’interno del concetto stesso di “arte” vi è il teatro e, anche in questo ambito, Vercelli ha delle vere e proprie eccellenze come Sandro Gino, attore e insegnante di recitazione della Officina Teatrale Anacoleti. Lo incontriamo per farci raccontare la storia della sua avventura d’amore per il palco.

Com’è iniziato il tuo percorso teatrale?
È iniziato a causa, per merito o per colpa… di un tagliere di salumi e formaggi, una birra rossa e un volantino. Non direi altro, voglio lasciare questo alone di mistero.

Come nasce il progetto dell’Officina Teatrale Anacoleti?
Gli Anacoleti nacquero al termine di un ciclo trimestrale di corsi tra il 2005 e il 2006, che vide coinvolti circa 14 allievi. Il risvolto miracoloso è che questi allievi, che tra loro si conoscevano poco, presi dal sacro fuoco decisero di formare il gruppo teatrale. Venne registrato lo statuto e si proseguì a lavorare per quasi un quinquennio sotto la direzione artistica di Federico Grassi, che rimase con noi fino al 2010. Dopodiché diventammo più autonomi, il nostro primo presidente Renato Fusaro trovò la nostra attuale sede in corso De Gregori 28, che fu in un primo tempo dedicato solo alla formazione attoriale per poi aprire le porte anche agli spettacoli. Ovviamente, all’inizio, facevamo molta fatica. Addirittura, ricordo che in uno dei primi spettacoli ospitati c’erano tre spettatori, di cui uno era il padre dell’attore in scena. Ma da lì abbiamo cominciato a perfezionare e traguardare meglio i nostri obiettivi, fino ad arrivare a stringere un vero e proprio accordo con la Fondazione Piemonte dal Vivo. Dal 2015 abbiamo potuto iniziare ad ospitare stagioni teatrali che hanno visto i più grossi nomi di attori e attrici del panorama contemporaneo, soprattutto della drammaturgia, calcare il nostro piccolo palcoscenico.

Qual è la scintilla più grande che senti nell’insegnare?
Avverto, più che altro, un senso di grande preoccupazione quando devo accingermi a cercare di trasmettere, nel mio piccolo, qualcosa a chi frequenta la nostra scuola. Perché ritengo che anche gli insegnanti attuali dell’Officina Anacoleti facciano, a loro volta, un percorso formativo per essere in grado di trasmettere nozioni sempre più aggiornate, che possano rappresentare delle novità sul piano didattico. Certamente, le materie fondamentali del teatro non le scopriamo oggi, hanno radici che vanno indietro nel tempo da Stanislavskij in avanti con tutti i maestri che si sono succeduti, se vogliamo stare in uno spazio-tempo più o meno contemporaneo. C’è questo obbligo, quasi, di sentirsi adeguato a quello che si trasmette, avendo il timore di sbagliare, di mancare qualche passaggio chiave o di non riuscire ad essere completi. Però come scintilla, se per questa vogliamo intendere la soddisfazione migliore che avverto, è quando esercizi apparentemente “inutili” si rivelano, a distanza di mesi e anni di pratica, fondamentali in quel determinato frangente e spettacolo. E allora capisci, come allievo, che ti sono serviti. Non lo capirai mai mentre li stai eseguendo, lo capirai solo alla prova dei fatti. E questo credo che sia la soddisfazione principale, quella scintilla che nasce dal fatto di condividere uno spazio di formazione con gli allievi della scuola.

Se tu avessi una bacchetta magica, quale copione riscriveresti e perché?
Se ripenso a tutti a tutti i copioni che abbiamo affrontato, devo dire che li ho e li abbiamo accolti con molto rispetto. Nella nostra vita, ad esempio, io e Alice (Monetti, insegnante alle Officine Teatrali Anacoleti, ndr.) abbiamo adattato in misura drastica “Capelli” di Roberta Invernizzi, attingendo il succo di quello che è il suo romanzo. Trasformare il libro in un copione teatrale è stata un’operazione particolarmente complessa, questo per dire che qualcosa, nella pratica, è stato fatto, così come è stato fatto quest’anno per “Migliore” (uno degli ultimi spettacoli della compagnia, ndr.) in maniera, però, molto meno incisiva, perché abbiamo semplicemente dat voce ai tanti personaggi che, comunque, costellavano questo racconto di Mattia Torre, trasformandolo da un monologo ad uno spettacolo polifonico, cioè a più voci e con delle presenze. Se dobbiamo pensare ai testi sacri del teatro, francamente, li abbiamo sempre affrontati per quello che sono, ma quello che mi piacerebbe fare, anche se non so se ne avrò mai il tempo, è affrontare e scrivere qualcosa di nuovo. Io sono un ottimista inguaribile ma mi sta spaventando molto quello che si sta prospettando all’orizzonte con l’intelligenza artificiale e cose di questo tipo, un mondo che tende a una “costrizione mentale” dove tutti la devono pensare allo stesso modo. È una cosa che mi terrorizza e mi piacerebbe avere la capacità e, soprattutto, il distacco necessario per poter scrivere qualcosa che lasci un significato, in questo contesto, ma che non sia banale.

Qual è, secondo te, la situazione teatrale a Vercelli?
Vercelli negli ultimi anni si è risvegliata, da un certo punto di vista, e coesistono diverse realtà. Noi facciamo stagioni di un certo livello dal 2015 e, quindi, con collaborazioni su un panorama teatrale nazionale. Sotto l’egida della Fondazione Piemonte dal Vivo siamo al secondo anno di sodalizio con il Museo Borgogna e la compagnia Cuocolo Bosetti, ben presente e attiva a Vercelli. Il Teatro di Dioniso di Torino, dapprima diretto da Walter Malosti e ora gestito da attrici e registe, ha creato un festival settembrino chiamato “Ogni Luogo è un Teatro”, che vedo sta assumendo proporzioni sempre più complesse di anno in anno e che corre in parallelo a delle scelte drammaturgiche che possono fare gli Anacoleti. Poi, ovviamente, c’è il teatro istituzionale, rappresentato dalla stagione comunale del Teatro Civico dove, devo dire, forse manca un po’ di coraggio a riabituare il pubblico ad una drammaturgia un po’ più audace. Se si mette in stagione la trasposizione teatrale dal film “Perfetti Sconosciuti” non stai facendo una grande operazione di teatro, e lo dico con tutto il rispetto e la massima umiltà. Però non di teatro trattasi, a mio modestissimo modo di vedere. Noi siamo riusciti a “rapire” un certo tipo di pubblico dal Teatro Civico, che arrivava da noi un po’ intimorito, lasciando le poltrone di velluto rosso per poi, alla fine, abituarsi a quelle di plastica dell’Officina. Ci sono alcuni, tra cui anche critici, che hanno detto “meno male che a Vercelli ci sono gli Anacoleti a proporre la stagione”. È comunque una libera scelta, il teatro è anche questo, è anche quello più convenzionale, in quanto ci sono vari generi e modi di affrontare il teatro e noi abbiamo semplicemente un’altra filosofia. In sintesi, si può dire che questi sono mondi dove ognuno, compresi quelli come noi che hanno il capannone con le sedie di plastica, si è creato il suo entourage di pubblico e il sogno sarebbe che questi generi di pubblico che adesso coesistono in maniera separata, riuscissero davvero a confrontarsi su quello che è la materia, cioè il teatro e la proposta teatrale. Invece sembra sempre che si creino dei salottini, dove ci sono quelli che vanno più volentieri al festival di settembre perché sono amici di quello o quell’altro, ci sono gli altri che sono stati abituati dalla Officina Anacoleti ad affrontare dei generi teatrali che prima non sapevano esistessero e ci sono altri ancora che seguitano ad andare al Teatro Civico ma per dare più che altro spettacolo di sé stessi, delle volte magari senza nemmeno capire che cosa stanno vedendo, se devo essere critico e polemico fino in fondo. Il Civico è un luogo bellissimo, sontuosamente teatrale, con i palchi, le gallerie, il siparione e soprattutto il foyer, un luogo fondamentale principalmente per la vercellesità. Certe volte la gente va a teatro per diventare un personaggio protagonista, al di là di quelli che sono sul palco. Mi viene da pensare, però, che ci sia più un ghetto di pubblico che di addetti ai lavori, in quanto cerchiamo sempre di collaborare molto tra di noi.

 

Emanuele Cielo Olmo

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1 commento

  1. Io sono un ottimista inguaribile
    ma mi sta spaventando molto
    quello che si sta prospettando all’orizzonte
    con l’intelligenza artificiale
    e cose di questo tipo, un mondo che tende
    a una “costrizione mentale”
    dove tutti la devono pensare allo stesso modo.
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    È una cosa che mi terrorizza
    e mi piacerebbe avere la capacità
    e, soprattutto, il distacco necessario
    per poter scrivere qualcosa
    che lasci un significato, in questo contesto,
    ma che non sia banale.
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