Come Vercelli affrontò l’epidemia di peste del 1630

«La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimenti che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia». Così si apre il capitolo XXXI dei Promessi Sposi che, insieme al successivo, racconta l’epidemia del 1630.

Pagine più che mai attuali su cui è opportuno riflettere, non tanto per una similitudine tra la peste e il coronavirus, due patologie che differiscono in maniera sostanziale, quanto per i comportamenti della popolazione trovatasi ad avere a che fare con un problema inaspettato di difficile soluzione e contenimento. Inoltre nei quasi quattrocento anni che intercorrono tra una e l’altra la medicina ha fatto passi da gigante e ora, per fortuna nostra, agisce su basi del tutto scientifiche e non più empiriche come un tempo.

Anche Vercelli non fu risparmiata dall’epidemia descritta dal Manzoni e ancor prima, sempre in età moderna, dovette subirne un’altra nel 1576, tuttavia è quella del 1630 che causò i danni maggiori: «Una tal pestilenza, che infestò gran parte dell’Italia, manifestossi in Vercelli sul principio del marzo del 1630, e durò sino al fin di giugno, togliendo la vita a milletrecento persone», scrive nel suo Dizionario lo storico Goffredo Casalis.

Cosa successe in quei mesi? Né più né meno di ciò che sta capitando oggi. Vercelli infatti fu messa in quarantena e a tutti gli abitanti fu proibito di lasciare la città e di avere relazioni con chiunque. Allo stesso modo furono sospese le attività commerciali e gli scambi con i Paesi più vicini. La pena più grave per chi trasgrediva era la condanna a morte, poi fortunatamente commutata in anni di carcere a seconda del reato.

A sovrintendere la tutela delle leggi restrittive furono istituiti gli Uffici della Sanità che erano gestiti da nobili. Solo loro e nessun altro potevano certificare lo stato di buona salute del territorio di competenza. A dirigerli erano degli amministratori, scelti tra notabili del luogo, e non medici i quali erano mandati in prima linea per far fronte alle emergenze. Poiché gli ufficiali della Sanità nel loro giustificato zelo, atto a preservare il benessere della città, finivano per urtare molti interessi economici cominciarono a incontrare una forte opposizione, ragion per cui un decreto stabilì che dovessero rendere conto solo alle autorità supreme.

«Come oggi – scrive Daniela Piemontino nel saggio sulla peste contenuto in Storia di Vercelli del 2011 – anche durante l’età moderna, il verificarsi di un’epidemia rappresentava per una città un catastrofico aumento delle spese per la salute. Bisognava provvedere all’assunzione di personale, all’individuazione di luoghi da destinarsi all’isolamento delle persone infette, al sostentamento di tutti i poveri che erano in quarantena sia nelle case che nei lazzaretti, all’ingaggio di guardie aggiuntive alle porte della città, alle spese per le disinfezioni». Ugualmente, come capita oggi, pure in quei travagliati giorni del 1630 molti cittadini vercellesi si distinsero per aver contribuito di tasca propria alle necessità dei poveri durante la peste.

Come detto la medicina di adesso non è più quella del XVII secolo quando la causa della peste fu spiegata con i miasmi presenti nell’aria, la combinazione errata degli umori che costituivano l’essere umano, la posizione particolari dei corpi celesti e infine, secondo ciò che diceva la religione, l’ira di Dio. Oggi sappiamo che la peste è invece causata dalla pulce dei ratti che proliferava soprattutto in estate (ricordiamo a tal proposito la pioggia purificatrice che annuncia la fine della peste nei Promessi Sposi).

Nella peste del 1630 gli Uffici della Sanità, pur non avendo molte conoscenze in merito e non sapendo come comportarsi, presero una saggia decisione, la stessa applicata oggi con il coronavirus: provarono a rallentarne la diffusione con quarantene, cordoni sanitari e altri provvedimenti. Tutti coloro i quali possedevano qualche base di medicina si resero disponibili, come i chirurghi e gli speziali ad esempio. Chiaramente nessuno, tranne loro, poteva venire in contatto con i malati che furono isolati in edifici creati apposta per loro: i lazzaretti. Tutto ciò che apparteneva agli appestati fu bruciato, sanificato o purificato.

«I raduni di ogni genere – spiega sempre Daniela Piemontino – presso scuole, e studi, ma anche in occasione di mercati, balli, banchetti, cerimonie nelle chiese e processioni erano considerati potenzialmente pericolosi, perché in questi assembramenti di persone era più facile il contagio». Fu garantita assistenza ai mendicanti e ai poveri, si fecero le provviste utili per tre mesi e furono rifornite le farmacie. Veniva altresì consigliato di praticare esercizio fisico nei giusti modi.

La peste era considerata il peggior flagello che potesse capitare a una popolazione (ricordiamoci di quella del 1348 che ridusse all’impotenza quasi tutta l’Europa), tuttavia fu debellata, non si sa se per via della Provvidenza manzoniana, perché furono prese le dovute precauzioni o perché la malattia semplicemente aveva fatto il suo corso. La gente aveva bene impresso il postulato per starne lontana: «La via di schivar la peste, son le tre parole, degne di lettere d’oro: lontan camina, e presto, e torna tardi», scritto da Francesco Alessandri nel suo trattato De Peste.

Oggi non siamo più nel 1630, sono cambiate tante cose, ma siamo ancora di fronte a un’emergenza sanitaria. Non è dato sapere quando ne verremo fuori (speriamo tutti in tempi brevi) e non conosciamo neppure quali saranno gli effetti catastrofici sul mondo intero. Noi, nel nostro piccolo, non possiamo fare altro che attenerci alle disposizioni delle autorità, cioè restare a casa evitando gli spostamenti che non sono necessari e applicare le basilari norme igieniche.

Un’altra cosa possiamo fare. Informarci, ma non prendendo per buono tutto ciò che viene scritto (chi frequenta i social sa di cosa stiamo parlando). Seguiamo il consiglio di Alessandro Manzoni che così chiude la parte storica dedicata alla peste: «Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire».

Massimiliano Muraro

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