Tre giorni in bicicletta sulle strade del contrabbando, tappa 2: “Ma quanto è bello l’Umbrail?”

Una settimana fa insieme all’amico Giacomo Pellizzari, con il quale l’anno scorso avevo compiuto l’anello dei 7 Majeurs sulle Alpi Marittime, sono partito direzione Valtellina per un’altra fuga dalla routine. In sella alle nostre biciclette, attrezzate con lo stretto necessario per stare via tre giorni, ci siamo lanciati nel Tabac Brevet, sulle strade del ciclismo di contrabbando, su e giù per le montagne che separano l’Italia dalla Svizzera e dall’Austria.

Dopo la prima tappa che ci ha condotti a Livigno e dopo aver scalato nell’ordine Aprica, Gavia, Foscagno ed Eira, il Tabac Brevet prosegue mercoledì 21 luglio con meno km, ma con un dislivello più concentrato. Dobbiamo arrivare a Resia, sconfinando in Svizzera e passare anche oggi quattro colli: Fuorn, Umbria, Stelvio e Resia.

Il logo del Tabac Brevet, ideato da Giacomo Pellizzari

Giorno 2: Fuorn, Umbrail, Stelvio, Resia

Il mattino dopo per me e per Giacomo sveglia di buon’ora, dobbiamo sconfinare in Svizzera e per farlo bisogna prendere una navetta perché la galleria è interdetta alle biciclette dopo che tempo fa è accaduto un incidente. Fa freddo, del resto Livigno è a 1.800 metri sul livello del mare. Per mitigarlo indossiamo manicotti, guanti lunghi e uno scaldacollo che in verità serviranno solo per questo breve tratto di trasferimento perché il sole inizia a fare capolino da dietro le cime.

In attesa della navetta che ci condurrà in Svizzera

Livigno è una zona franca, infatti alla dogana c’è una fila interminabile di auto che vengono controllate, non tanto in entrata quanto in uscita. Molti ne approfittano per godere dei benefici tributari per alcuni tipi di merce su cui non si pagano dazi di importazione, IVA in particolare. Passeggiando di sera e dando un’occhiata ai prezzi ci accorgiamo subito che è così. Ad esempio un casco da bici lo si paga 120 € in meno che nei nostri negozi. Se però malauguratamente qualcuno viene pizzicato con troppa roba dietro, ovvero oltre i limiti consentiti dalla legge, allora la faccenda diventa seria e le multe piovono salate.

Noi però non ci preoccupiamo di questo perché in primo luogo non possiamo permetterci peso in eccesso e poi perché andiamo verso la Svizzera. Costeggiamo il lago passando sotto la lunga galleria paravalanghe e proviamo ad accelerare un po’, più che altro per riscaldarci. Sostiamo prima della dogana in attesa del nostro traghettatore che non tarda ad arrivare. Dopo aver attraversato il tunnel dell’Engadina a bordo del pulmino assieme ad altri ciclisti, con i nostri mezzi bene fissati a un rimorchio, ci accingiamo a scalare il Fuorn (2.149 metri) verso la Val Monastero.

Direzione Santa Maria in Val Monastero per attaccare l’Umbrail

La valle si apre come un ventaglio, mostrando tutta la sua bellezza incontrastata. L’aria è rarefatta, ma la si assapora lo stesso a pieni polmoni. Poi in cuor nostro sappiamo che oggi la giornata sarà un po’ meno faticosa di ieri, anche se non mancherà certo il dislivello, concentrato in meno km. Attraversa la strada un cervo: Giacomo mi chiede se l’ho visto. Macché, mi stavo perdendo come al solito nei miei pensieri che stavo tarando in vista della prossima asperità che sappiamo non essere una passeggiata.

Testa e corpo sono proiettati all’Umbrail che in italiano si chiama Giogo di Santa Maria e che, abbiamo visto ieri su un sito che riporta le altimetrie di tutte le salite essere veramente tosto. Insomma, ci spaventa allo stesso modo di come era accaduto un anno fa nei 7 Majeurs col Sampeyre, colle che chiudeva il nostro anello. A ragione oserei dire, perché da Santa Maria Val Monastero le rampe attaccano subito oltre il 10%. Giacomo prova a dirmi qualcosa, ma io non gli rispondo, sono già nel mondo che creo quando so che ci sarà da pedalare naso all’insù per un bel po’.

Per fortuna dopo il paese le pendenze si addolciscono e si fanno più regolari. Forse il diavolo non è così brutto come lo si dipinge. L’Umbrail in effetti, pur essendo duro, si fa perdonare al pari di un bambino che ti gioca qualche dispetto per attirare l’attenzione, grazie a un mix di paesaggi unico nel suo genere. I tornanti danno agio di godersi tutto il verde e il profumo di cirmolo è davvero inebriante. Trovo Giacomo poco più avanti, mi ha aspettato perché vuole dirmi qualcosa che già intuisco: «Ma quanto è bello l’Umbrail?».

Vista dall’Umbrail

Usciti dal bosco e salendo in altitudine il panorama si allarga ulteriormente ed ecco che ci troviamo a costeggiare uno scenografico torrente che ci accompagnerà per qualche km. Giacomo sembra Herzog in Fitzcarraldo, vuole riprendere tutto col suo telefonino, io mi accontento di qualche scatto. Quindi ci si rituffa nella foresta, ma per poco dato che siamo vicini ai 2.000 metri, limite oltre il quale la vegetazione gradualmente prende a scarseggiare.

La cosa che mi piace di più di questa situazione è che siamo in mezzo a una valle selvaggia, dove la presenza dell’uomo si sente nel perfetto asfalto della carreggiata e in qualche rara costruzione utilizzata credo dai pastori, e che ci siamo solo noi, le nostre biciclette e le marmotte che fischiano. Tutto questo rende la mia pedalata più leggera, non mi interessa se altri mi passano a velocità doppia, voglio godermi qualsiasi tessera di questo mosaico che si completerà solo in vetta. Giacomo è su che mi attende per la foto di rito e un po’ mi maledice perché ha freddo. Io voglio stare lì ancora qualche minuto, penso che l’Umbrail sia la più bella scoperta di questo viaggio.

Foto di rito in cima all’Umbrail

Il mio amico mi riporta presto alla realtà: «Guarda in alto, noi dobbiamo andare là». Cioè dobbiamo fare altri tre o quattro km per agguantare lo Stelvio. Sì perché in sostanza l’Umbrail, che si ferma a 2.505 metri, è la via svizzera per lo Stelvio, il suo terzo versante oltre ai due nobili di Prato e di Bormio. Giacomo insiste nel dirmi che lo Stelvio non è che gli piaccia tanto perché è troppo turistico, anzi «civilizzato». Io invece non l’ho mai fatto ed è da quando ho iniziato ad andare in bicicletta che non vedo l’ora di andarci, ma non salendo da lì, bensì da Prato come poi faremo il terzo giorno.

Un po’ aveva ragione Giacomo, sullo Stelvio c’è una caterva di gente, chi sale in moto, chi in auto, chi in bici e chi di corsa. C’è la fila per la foto al cartello e a me questo non è che piaccia molto, ma è un sacrificio al quale mi sottopongo volentieri. Però so già che lo Stelvio sarà veramente mio solo l’indomani.

La discesa dello Stelvio verso Prato

Ci tocca la discesa verso Prato, quella che domani faremo in senso inverso. Non è facile guidare la bici perché i tornanti chiudono a 180° e intanto il traffico aumenta, in più qualche automobilista si agita perché non abituato a queste tortuosità e invade la corsia opposta senza curarsi di chi sopraggiunge. C’è da prestare la massima attenzione. Per fortuna dopo Trafoi la strada diventa più ampia e si va che è un piacere. Ormai il più è fatto, ci resta solo il Passo Resia che è il più facile. Almeno così pensiamo.

Decidiamo che non ci va di stare sulla statale, perciò prendiamo la ciclabile, lì siamo più sicuri. Peccato che, essendo ricavata da quelli che un tempo erano sentieri di campagna, la pendenza non sia regolare, ma un continuo susseguirsi di strappi al 15%, da fare peraltro sotto il sole cocente. Per certi versi più faticoso dell’Umbrail, specie quando abbandoniamo la strada maestra per inoltrarci non sappiamo dove. C’è da dire che la ciclabile ci permette di osservare cose che altrimenti ci sfuggirebbero: la città di Glorenza, il castello di Burgusio, i bunker disseminati dove meno te li aspetti, i filari di meleti, le cataste di tronchi pronti per le segherie.

All’improvviso un bunker

Finché di fronte ci appare il lago dove sappiamo esserci un altro punto di interesse fissato nel nostro taccuino di viaggio. È il campanile della chiesa sommersa di Curon Venosta che emerge dalle acque, una visione che stimola emozioni contrastanti: affascina, ma al tempo stesso inquieta. In una parola è magnetico. Lo scrittore Marzo Balzano nel 2018 lo ha reso elemento centrale del suo romanzo Resto qui, mentre, sempre nello stesso anno, il regista Georg Lembergh ne ha raccontato la storia nel film documentario Il paese sommerso.

Nel 1950 il bacino artificiale, che è stato costruito per unire i paesi di Curon e Resia, impone uno spopolamento forzato e la demolizione di tutti gli edifici tramite delle mine, opportunamente installate dagli artificieri. Solo il campanile della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, eretta nel 1357, non crolla. Il paese viene ricostruito sul lato orientale della valle e la popolazione viene obbligata a trasferirsi. Questo atto di violenza non ha impedito al campanile di resistere, trasformando Curon in un’ambita meta turistica. Sembra Jack LaMotta che non cede nonostante tutti i pugni ricevuti. E quel pinnacolo che sbuca fuori dall’acqua come un palo da ormeggio ci ricorda con la sua permanenza la forza del passato, tempo indispensabile per conoscere le nostre radici e per comprendere chi siamo, nonché attracco per quando siamo in difficoltà.

Il campanile della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria che sbuca dal lago di Resia

Terminate le elucubrazioni filosofiche ci accorgiamo che è ora di fare gli ultimi km, quelli che ci separano da Resia. A poche centinaia di metri dalla dogana che conduce in Austria la foto sotto il cartello di cui quasi non ci accorgiamo neppure perché posto in un’impersonale piazzola. Espletata la formalità ci aspettano una corroborante doccia e un lauto pranzo tirolese, innaffiato da boccali di spumosa birra. Il giorno successivo ce la prendiamo comoda, la tappa conclusiva è sì lunga, ma non presenta il dislivello delle precedenti, sebbene sia tutto concentrato in un’unica ascesa, quella di 25 km che ci condurrà nuovamente in vetta a sua maestà lo Stelvio, a 2.758 metri. Intanto oggi abbiamo pedalato per 115 km e 2.800 metri di dislivello.

Massimiliano Muraro

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