Viaggi in treno. Oggi ci lamentiamo (e giustamente) se d’estate non funziona a dovere l’aria condizionata o se, d’inverno, sui convogli, si gela. Ma cinquant’anni fa accadeva che si andasse in vacanza in treno e c’era ben di peggio.
La mia compagnia aveva scelto Cattolica, pensione “Eden”, che probabilmente non c’è più. Per raggiungerla, si prendeva il Milano-Lecce che partiva dalla Centrale dopo le 11 di sera. Era il treno più affollato del mondo, ma era anche l’unico disponibile: il solo salirci era un’impresa. Già a Milano era affollato e, spesso viaggiavi in piedi, o seduto nel risicato spazio tra vagone e l’altro , dove ci sono le toilette.
L’estate del ‘71, non so come, salendo su uno dei vagoni in testa al treno, trovammo uno scompartimento vuoto, non so se capite: tutto vuoto. Ci sembrava di sognare. Prima di occuparlo, ci guardammo intorno, alla ricerca di avvisi tetragoni, tipo: “Riservato al personale delle Ferrovie”. No, nulla di nulla. Era vuoto, ed era lì tutto per noi. Poi guardammo meglio. Era sgombro sì, ma aveva i sedili tutti in legno, come quelli delle vecchie tradotte militari utilizzate talvolta nelle terze classi, abolite da qualche anno. Ma era tutto per noi, lo occupammo e ci sembrò il paradiso.
Essendo lo scompartimento a nostra disposizione, sistemammo a dovere la maxi valigia con il canotto gonfiabile del Tonino, che ci aveva ammoniti: “La portiamo un po’ a testa, neh?”. Pesava almeno trenta chili. Finì per portarla quasi sempre lui, perché era il più forzuto della compagnia. Ma si lamentò pochissimo perché quello scompartimento scomodo, ovviamente senza aria condizionata (sopperivano i finestrini abbassati), che ci rimandava alle tradotte per noi, Tonino compreso, quella notte, fu una sorta di Eldorado.
Tutt’altra musica al ritorno, due settimane dopo. Io stavo male (raffreddore rimediato proprio l’ultimo giorno di mare), Tonino si portava il suo maxi carico, ma stavolta i lai, perché nessuno gli dava una mano, si levarono alti. E allora tutti contribuimmo, tranne me, cadaverico. Non c’era alcuno scompartimento vuoto, ma non solo. Non c’erano posti a sedere neanche isolati. Riparammo sullo snodo tra due vagoni: la maxi valigia col canotto funzionò per alcuni di noi da sgabello, gli altri si arrangiarono sedendosi per terra, con numerosi compagni di sventura. Ci rassegnammo subito: fino a Milano sarà così.
Seduto per terra con noi (tutti tra i 18 e i 19 anni), un quarantenne, che incominciò ad attaccare bottone, prendendo spunto da qualcuno che stava fischiettando “Io vagabondo” dei Nomadi. “Per me non c’è che un cantante, in Italia: papà Johnny”. Prego? “Johnny, Johnny Dorelli”. Enrico S. Provò a ribattere: “Ma c’è De Andrè, c’è Mina, la Vanoni”. Il fan di Dorelli storse il viso in una smorfia di finta accondiscendenza, come si fa con i bambini che vogliono saperla lunga. E rispose: “Fidatevi di me. Piacere: maestro di musica Cuasini. In realtà mi chiamerei Casini, ma il mio cognome ricorda troppo le case di tolleranza, e non mi piace”. Non sapeva, il “maestro”, che, un paio di decenni dopo, si sarebbe chiamato con quel cognome che lui aborriva un presidente della Camera.
Cuasini ci tenne una dotta lezione sulla grandezza di Dorelli e ci illustrò le sue frequentazioni con i big di allora della musica leggera. Dato che era proprio appoggiato alla porta della toilette, quando il treno frenava ci finiva dentro, e il Tonino lo recuperava. Gli domandammo come mai un maestro di musica, che aveva dimestichezza con Dorelli e con gli altri cantanti in voga, viaggiasse in seconda, e lui ci spiegò che aveva il biglietto di prima, ma gli piaceva il contatto con la gente, come oggi ama ripetere il segretario del Pd. Ed io febbricitante, aggiunsi tra me e me: “E soprattutto ti piace finire nei cessi ad ogni frenata”.
Finalmente arrivammo alla Centrale: salutammo il maestro Cuasini e ci dirigemmo verso il diretto per Torino. Io ero groggy, il Tonino si trascinava il valigione da trenta chili, ma il convoglio con Vercelli ci sembrò una benedizione.
Oggi ci lamentiamo di tutto. Ridatemi gli anni della tradotta per Lecce, e ridatemi il maestro Cuasini che adorava “papà Johnny” e che tiravamo fuori dal gabinetto quando il treno si fermava ad ogni stazione intermedia. E, andando col pensiero a quella notte tra Cattolica e Vercelli, mi indignerei assai di meno se, sul Freciarossa, l’aria condizionata non raggiunge i 23 gradi ideali, ma si blocca sui ventisei, se a bordo non c’è il mio quotidiano preferito o se il caffè è un po’ troppo freddo o troppo caldo.
Enrico De Maria