L’espressione della spiritualità in Giacomo Manzù

Il Cardinale di Manzù davanti all'ingresso in Arca

Credo che la definizione migliore dell’arte di Giacomo Manzù, protagonista della mostra in Arca La scultura è un raggio di luna, l’abbia data Mario De Micheli parlando della modernità della sua azione, descritta come la capacità di pronunciare parole antiche con l’accento del contemporaneo.

La sua forza espressiva sta proprio lì, nella costruzione di un sistema linguistico che media le prime influenze, cioè quelle istintive e veementi della formazione, con il contesto innovativo entro cui si trova a operare una volta abbandonata la provincia per giungere nella metropoli, Milano, dove trova a scontrarsi con il disfacimento della forma operato da Medardo Rosso.

Ma facciamo un passo indietro. Partendo magari dall’abbreviazione scelta per il suo cognome: Manzù al posto di Manzoni. Una fiera rivendicazione delle proprie origini bergamasche. È a Bergamo infatti che Giacomo nasce nel 1908, dodicesimo di quattordici fratelli, sei dei quali morti di influenza spagnola ancora in tenera età. Siamo in una delle tipiche famiglie di un tempo, di quelle ritratte con una mescolanza di idillio e brutalità da Ermanno Olmi, bergamasco pure lui, nel film L’albero degli zoccoli, ambientato circa un decennio prima della nascita di Manzù. Par di sentire pronunciare la u accentata, ingrediente immancabile dell’idioma lombardo di quelle parti, dove gli occhi hanno la fortuna di spaziare dalla pianura ai monti.

L’inaugurazione della mostra (foto Greppi)

C’è poco tempo per l’istruzione, non è che sia superflua o forse in quel mondo sì, ma, sia come sia, bisogna dare una mano a casa. Il padre è calzolaio e per arrotondare anche sacrestano nella parrocchia di Sant’Alessandro, le entrate sono scarse così Giacomo si ferma alla seconda elementare. A dieci anni si trova un lavoro piuttosto inusuale, ovvero va ad aiutare il becchino del suo quartiere a sotterrare i morti. Per sua stessa ammissione, quando ormai è in età avanzata, dirà che quei corpi nudi e impietriti accesero dentro di lui la scintilla dell’arte, il desiderio di ricreare forme e volumi nell’incorruttibilità del bronzo.

Dunque Manzù conosce i patimenti della vita piuttosto in fretta, ma sa che quella stessa vita che ineluttabilmente scorre via in un batter di ciglio deve essere raccontata, fissata in qualche modo. Ecco dunque la folgorazione dell’arte e la sperimentazione della materia. All’inizio è il legno a incuriosire il suo talento ancora grezzo, poi la pietra e l’argilla. I modelli da seguire sono quelli di prossimità, cioè le opere che studia da vicino a Bergamo e nei dintorni, ma è più tardi, nel 1927, quando è in servizio di leva a Verona, che si imbatte nella romanica basilica di San Zeno, in particolare nel portale con le sue 73 formelle in bronzo: un autentico campionario di scene sacre e simbologie cristiane davanti alle quali la sensibilità del giovane Manzù non poteva non vacillare.

La figlia di Manzù, accanto al sindaco, cvisita la mostra (Greppi)

È deciso: la strada di Giacomo è quella dell’arte ed è perciò arrivato il tempo di spiccare il grande salto. Che qui risponde al nome di Milano. Lì Manzù emenda il suo idioma da giovanili primitivismi e lo rende moderno, grazie a Medardo Rosso, già mancato da qualche anno ma faro guida della cultura meneghina, lo scultore al quale interessava «oublier la matière». Dimenticare la materia e rivolgersi altrove, laddove si rinnega l’accademia a vantaggio di un’innovazione stilistica e formale che corrisponde a una salutare boccata d’aria fresca.

Non poteva essere altrimenti per Manzù. Avendo osservato fin da bambino gli stenti e la povertà ancestrale della gente e toccato con mano la morte che accompagnava il quotidiano, una rappresentazione di tutto ciò non poteva certo manifestarsi attraverso l’afflato eroico e lo spirito aulico, bensì cogliendo e raffigurando i gesti di uomini e donne cresciuti nella miseria e che da quella miseria sanno fin troppo bene che è difficile emanciparsi.

C’è molta religione nella sua poetica è vero, ma si badi bene, non è la pedante religione dei baciapile. È una religione che vuole arrivare a Dio tramite la conoscenza, non tramite la fede. Essa diventa «un argomento contro la retorica dei sentimenti», scrive Argan che prosegue notando come Manzù «esplicitamente oppone, con una memorabile serie di Crocefissioni e Deposizioni palesemente allusive alla condizione politica, l’autenticità del sentimento cristiano all’inautenticità dei miti del potere».

Una lettura, quest’ultima, che bene si attaglia alla Porta della Morte per la basilica di San Pietro a Roma (la cui riproduzione termina la mostra vercellese curata da Concina, De Luca e Zin), summa dell’arte di Manzù, terminata nel 1964. Con una tecnica che riprende a pieno titolo lo stiacciato di Donatello e che quindi pesca nella tradizione delle porte monumentali (ricordiamo San Zeno), Manzù esprime una spiritualità che non è trascendente, piuttosto immanente, cioè che immerge le mani nel vissuto: la morte di una madre davanti al suo bambino, la rissa di alcuni ragazzi, il partigiano appeso per i piedi con la donna amata che lo piange (scene viste con gli occhi dello stesso Manzù in guerra). Ci sono è vero altre formelle che riportano un tema più classico (la Morte di San Giuseppe ad esempio), ma la chiave di lettura dell’opera deve necessariamente partire dalle scene di crudo realismo poc’anzi citate.

Manzù in quegli anni è artista affermato: i suoi Cardinali, le sue Crocifissioni, le sue Bambine sulla sedia sono nel frattempo entrati a buon diritto nell’immaginario collettivo e il suo nome è noto non solo negli ambienti dell’arte. C’è però ancora un crocevia, questa volta non dovuto all’incontro con qualche tipo di movimento o di avanguardia, ma con una donna. È una danzatrice e si chiama Inge Schabel. Diventerà sua compagna di vita e sua primaria fonte di ispirazione, dirompente a tal punto da costringerlo a una netta virata, a «un impulso liberatorio», dirà De Micheli. Le forme, abbandonati i riferimenti espressionistici, divengono più sensuali, più lineari, così anche i soggetti che cambiano: sono ora nudi femminili sui quali non si legge «mai ombra di peccato, ma elogio disteso e terrestre».

Manzù insomma compie una sorta di percorso atipico per quanto comune: giunge all’amore provenendo dalla sofferenza e dalla morte. Comprende il senso della vita e lo accetta, meditandoci sopra nel suo buen retiro a Campo del Fico, fino alla fine, che per lui arriva il 17 gennaio del 1991 a 83 anni.

La scultura è un raggio di luna riassume il percorso di Giacomo Manzù in maniera esemplare, soffermandosi specialmente sui Cardinali, uno dei quali è ritto come un guardiano subito fuori dall’ingresso nell’ex chiesa di San Marco. Quei cardinali conosciuti a Roma nel 1934 che lo «impressionarono per le loro masse rigide, eppur vibranti di spiritualità complessa. Li vedevo come tante statue, una serie di cubi allineati e l’impulso a creare nelle sculture una mia versione di quella realtà ineffabile fu irresistibile». In questo è da leggersi la spiritualità di Giacomo Manzù.

Massimiliano Muraro

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