Il Teatro nel sangue – Alice Monetti: “Il Teatro ti parla di vita. Il palcoscenico che mi piacerebbe calcare? È l’ovunque”

Alice Monetti

Alice Monetti è attrice e insegnante di recitazione della Officina Teatrale Anacoleti. Il suo operato insieme alla compagnia ha portato, e tutt’ora porta, lustro e grande qualità recitativa alla parte artistica della città di Vercelli. Dopo Sandro Gino, altro istruttore di tecnica teatrale dell’Officina, la incontriamo per farci raccontare il suo percorso nell’attorialità.

 

Com’è iniziato il tuo percorso teatrale?

Ho iniziato all’età di undici anni nella maniera più classica: a scuola si è obbligati a scegliere un’attività pomeridiana e un po’ per caso, un po’ per curiosità, ho scelto il laboratorio teatrale. Devo dire che il primo anno è stato molto traumatico, perché non sapevo a cosa stessi andando incontro e mi sono ritrovata un mondo che non mi aspettavo mi mettesse così in gioco. Forse a undici anni pensi che il teatro sia tutta finzione, apparenza e il giocare a fare qualcos’altro. In parte lo era, ovviamente ma mi sono resa conto dopo poco che, in realtà, era uno scavare dentro di sé per trovare delle cose da portare nella maniera più corretta all’esterno. Dall’altro lato era un guardarsi intorno e capire che cosa il mondo poteva comunicarti e, quindi, che cosa di tutto quello che vedevi dentro e fuori di te potevi portare nel teatro. Ho avuto nei primi anni la voglia di scappare, però era un’attrazione e una repulsione nello stesso tempo, ne avevo paura ma non potevo farne a meno. Da lì è poi cominciato tutto e ho cercato di diventare il più possibile onnivora di teatro.

 

Da dove nasce il nome “Anacoleti” e come ti sei unita a loro?

Gli Anacoleti sono nati da un gruppo di pazzi che si sono ritrovati a fare un corso di formazione per poi decidere di costituire un’associazione. Io ero già lì dentro come un embrione degli Anacoleti perché, grazie a degli amici comuni, sono stata chiamata ad interpretare un’ancella per uno spettacolo ma facevo già parte di un’altra compagnia all’epoca. Per un po’ ho portato avanti le due cose finché non ho deciso con chi volessi continuare a camminare. Un dettaglio particolare è che in quelle giornate mi ritrovai proprio con Sandro (Gino, insegnante della Officina Teatrale Anacoleti, leggi qui la sua intervista ndr.) a fare un esercizio di fiducia e… a distanza di vent’anni siamo ancora qui. Com’è nato il nome “Anacoleti”, invece, se lo chiedono tutti: quando facevamo questo laboratorio teatrale, al termine di ogni lezione avevamo uno spazio in cui chi lo desiderava poteva dire ciò che voleva. Una sera, una persona che non aveva nulla da dire, disse “Anacoluto” e la cosa finì lì. Qualcun altro, però, la capì come “Anacoleti” e da lì nacque il nostro nome, che ci siamo portati dietro perché ci sembrava una sintesi tra l’anacoluto, che è una figura retorica in cui le varie parti di una frase non rispecchiano una coesione, e anacoreti, che sono degli eremiti asceti che meditano e vivono un po’ separati dal mondo. L’idea di avere un nome inesistente sul dizionario e che rappresentasse queste due idee ci piaceva molto!

 

Qual è il ruolo che ti sta più a cuore fra tutti quelli da te interpretati e perché?

È una domanda molto difficile perché, a volte, i personaggi più ostici sono quelli che ti rimangono di più. Dall’altro lato, quelli che ti sono più affini li ami di più. Forse ci sono due ruoli che mi porto dietro e sento sotto la pelle, anche se spero che il ruolo che vorrò interpretare sia in futuro e di doverlo ancora scoprire. Uno è sicuramente Antigone: anni fa abbiamo fatto una versione contemporanea scritta da Valeria Parrella. L’altro è sicuramente Penelope: anche qui si tratta di un testo innestato di contemporaneità. Sono personaggi forti, profondi e sfaccettati ed entrambi questi ruoli mi hanno dato la possibilità di indagare molto in profondità come attrice. In qualche modo, poi, ci sono mille ragioni in cui la tua vita si interseca a quella del personaggio. Non capita spesso ma quando avviene un “transfer” in cui tu sali sul palco, guardi un attore che interpreta un dato personaggio e vedi esattamente quel personaggio con gli occhi di chi stai interpretando, avviene un piccolo miracolo. Mi è successo con loro ed è forse questo il motivo per cui questi due personaggi mi sono rimasti così addosso.

 

Qual è il tuo processo interno tra mente e corpo prima di andare in scena?

Per arrivare sul palco pronto, ogni attore deve costruire una propria routine dove si allena mentalmente e fisicamente, intendendo in maniera corporea e vocale. Per ognuno è, però, diverso: quando insegniamo cerchiamo di dare alle persone degli strumenti che sono stati utili per noi, sapendo che ciascuno dovrà poi scoprire i propri. Quello che deve fare un attore è mettere insieme tutti i tasselli utili per sé, per arrivare ad essere quella famosa tavola bianca sulla quale costruire il personaggio. Questa è forse la parte semplice. Quella più complessa è “entrare nudo”: riuscire a stupirsi e a reagire veramente a quello che ti accade in quel momento. Ad esempio, io so che cosa succederà ad Antigone ma lei no e deve trasparire quando la interpreto. Questo è molto complicato in quanto un attore ha la memoria di tutte le sue battute ma bisogna anche essere pronti per ogni incognita che può proporsi, come una dimenticanza o una battuta diversa da parte di un altro attore. Lì bisogna essere pronti a reagire, perché il personaggio non può proseguire ignorando ciò che gli sta capitando attorno. Serve, ovviamente, la giusta preparazione ma, come nella vita quotidiana, devo scoprire l’ignoto: quello che fa l’attore prima di salire sul palco deve servigli a questo.

 

Hai mai desiderato calcare un palcoscenico in particolare?

Per quello che è l’orientamento che ci interessa come Anacoleti e per la direzione che sta prendendo il teatro contemporaneo negli ultimi anni, soprattutto dopo il periodo pandemico che ha messo noi artisti molto in discussione, sono arrivata alla conclusione che il palcoscenico che vorrei calcare sia una cosa che non è un palcoscenico. Cioè, portare il teatro in tutti quei posti che teatro non sono. Da tempo immemore il teatro è stato nei teatri o nei luoghi deputati per farlo ma, forse, ciò che sta cercando di fare il contemporaneo è proprio di condurre il teatro nella realtà: nel paesaggio urbano, rurale, in mezzo ai boschi o alle campagne. Il teatro ti parla di vita e ti chiede di immaginare delle cose. Immaginarle su un palco al buio o sul viale è, alla fine, lo stesso principio. Certo, in una struttura classica hai tutte le comodità d’illuminazione e audio-video del caso, mentre all’esterno hai molte più difficoltà. Ma il recitare in un prato ti porta a studiare delle soluzioni, ti conduce a metterti ancora di più in gioco per cercare un modo diverso di approcciarti, di comunicare, di essere efficace e arrivare a chi ti guarda, capendo anche dove sia. Credo che sia arricchente e, quindi, penso che il palcoscenico che mi piacerebbe calcare sia l’ovunque.

Emanuele Cielo Olmo

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