Il sorriso dolceamaro di Kabarett

Se con “Destinatario sconosciuto” Roberto Sbaratto ci aveva messo di fronte in maniera nuda e cruda alla tragedia della scalata al potere di Hitler con tutti gli orrori che ne erano seguiti, e che mai come in questi tempi è necessario ricordare, con “Kabarett”, spettacolo in quattro repliche da tutto esaurito, l’ultima delle quali domenica 27 Giorno della Memoria, il regista e attore, aiutato come sempre da Cinzia Ordine, ha affrontato la questione da un altro punto di vista: quello più implicito, ma non per questo meno drammatico, dove la barbarie non è quasi mai nemmeno menzionata, ma aleggia come uno spettro che non si vede, ma c’è, pronta a manifestarsi in qualsiasi momento.

Comune ai due spettacoli anche l’utilizzo inusuale dello spazio teatrale. Se con “Destinatario sconosciuto” eravamo in un museo (il Leone e per l’esattezza nella sala delle Cinquecentine), in “Kabarett” siamo sì a teatro, ma non nel salone istituzionale, bensì nel foyer. Un po’ perché in tal modo si è data una buona mano alla scenografia nel ricreare le ambientazioni della Berlino tra gli anni ’20 e gli anni ’30, un po’ per destare tra gli spettatori quella sensazione di straniamento elaborata da Brecht, che infatti è spesso citato durante la rappresentazione.

“Kabarett”, come hanno spiegato gli autori, è «un collage di canzoni, aneddoti e testi letterari che, insieme, accendono un faro di luce sulla storia e narrano di una città, Berlino, che ricomincia a vivere dopo la sconfitta della Prima Guerra mondiale». Tuttavia quello profilato, è un benessere solo apparente giacché in quegli anni la vita in Germania è ben diversa: il tasso d’inflazione è al picco e il popolo fatica a tirare avanti (si dice che la gente girasse con le carriole piene di soldi per acquistare il pane). È proprio lì che Adolf Hitler trova terreno fertile per le sue deliranti teorie politiche, poi purtroppo messe anche in pratica. Ecco allora che il “Kabarett” si trasforma in una felice evasione dalla realtà, necessaria per chi nel frattempo piangeva lacrime amare..

Il clima che si respira all’inizio è sereno, la gente prende posto ai tavolini, accolta da un gentile cameriere in divisa (Paolo Ferini Strambi dei “Camalli”). Entrano quindi gli artisti: la pianista Natalija Gashi, il violinista Bruno Raiteri, il batterista Roberto Sbaratto, le vedette Asia Bosio e Alessandra Volpe, le stelle del varietà Cristina Alia ed Elena Sardi che nel corso delle quasi due ore di spettacolo eseguiranno le canzoni tedesche più gettonate dell’epoca, trascritte e tradotte sul finire del Novecento dal drammaturgo, scrittore e librettista trentino Giuseppe di Leva.

Tra un’esibizione canora e l’altra gli interpreti raccontano la natura del cabaret attraverso aneddoti e battute. Molto divertenti le storielle di Sbaratto che affondano le radici nell’umorismo ebraico. Insomma, si respira davvero un’aria piacevole, si ride e si scherza. Tra le righe si percepisce anche che il cabaret solo all’apparenza è un genere disimpegnato. In realtà è la testimonianza palese di un decennio in cui i giovani artisti avevano ben poche occasioni per dimostrare il loro talento, il più delle volte visto con sospetto dal potere, che infatti ci metterà pochi anni per metterli al bando con le tristemente famose mostre dell’arte degenerata e con il simbolico rogo dei libri non graditi ai nazisti.

In “Kabarett” il nazismo e più in generale la vita di tutti i giorni non sono presenti fisicamente, ma aleggiano con incombenza, soprattutto verso la fine, prima che il sipario cali, quando Sbaratto elenca la fine del cabaret e dei protagonisti che gli hanno dato vita: alcuni, i più fortunati, riusciranno a emigrare in America, qualcuno ci proverà in Europa ma con scarso successo, altri si suicideranno, parecchi termineranno nei lager da dove non faranno più ritorno.

La parentesi felice si chiude, è tempo di tornare alla vita quotidiana, con la sensazione che quel che c’è oltre il tempo teatrale non può essere reale. Ci si chiede allora come è possibile che questo sia avvenuto e si teme che potrebbe accadere di nuovo. Prima però c’è ancora spazio per la lettura finale di Sbaratto, selezionata apposta per il Giorno della Memoria. Si tratta di un brano tratto da “Deutschland, Deutschland über alles” di Kurt Tucholsky, scrittore non gradito al regime in quanto vicino alla sinistra. Egli scrive che la Germania non è sopra tutti e che non appartiene solo ai nazionalisti. La Germania con le sue bellezze è di tutti e deve appartenere a tutti, non solo ad alcune persone che dicono di volere il suo bene, ma ne fanno solo il male.

Tucholsky e tutti gli altri poeti, artisti, intellettuali di quegli anni credevano in una società giusta. Per questo sono stati i primi a essere messi a tacere. “Kabarett” ci ha intrattenuto, ma, pur con il sorriso sulle labbra, ci ha insegnato che dietro l’evasione si può nascondere altro.

Massimiliano Muraro

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