Per fortuna Carlo Levi si è fermato ad Alassio

L'ingresso della Pinacoteca Carlo Levi, Palazzo Morteo ad Alassio

Il Muretto con le sue piastrelle firmate dalle più importanti celebrità, ideato nel 1953 da Mario Berrino e da Ernest Hemingway che era facile trovare seduto al tavolino dell’attiguo Caffè Roma (che poi, stando a quel che si legge, non esiste bar al mondo che non sia stato frequentato dallo scrittore americano), il profilo inconfondibile dell’isola Gallinara che domina il mare.

Ancora, i gustosi baci, magari da sbocconcellare passeggiando lungo il budello che pullula di negozi e locali alla moda. Nell’immaginario collettivo Alassio è tutto questo. Storica meta turistica del Ponente ligure, terzultimo avamposto della Riviera delle Palme, incastonata tra Punta Murena a est e Capo Mele a ovest, laddove il profumo della salsedine si mescola a quello dei pini, degli ulivi e del basilico.

Il Muretto di Alassio (da Wikipedia)

Ma c’è di più, possiamo garantirlo. Per chi vuole gettare lo sguardo oltre le attrazioni turistiche poc’anzi menzionate, suggeriamo, sempre ad Alassio, un piccolo gioiello che sfugge ai più: la Pinacoteca Carlo Levi, ospitata in Palazzo Morteo, residenza fabbricata nel XVII secolo, poi ereditata dalla Società Agricola di Mutuo Soccorso di Solva per volere del Conte Luigi Morteo nel 1887, che nel testamento vincolò l’edificio alle sole attività culturali. Ad esempio, dal 1930 al 1937 il Comune di Alassio la trasformò in una scuola.

Dopo una serie di vicissitudini, sulle quali è inutile soffermarci, passiamo all’inizio degli anni ’90, quando la Fondazione Levi comunicò all’Amministrazione alassina una lieta novella, ovvero la volontà di mettere a disposizione in comodato una parte delle opere pittoriche di Carlo Levi. Per fortuna tutto andò a buon fine, così nell’aprile 2003, vent’anni fa esatti, la Pinacoteca è stata inaugurata e ancora oggi rappresenta un prezioso dono per chi ama immergersi nell’arte e nella cultura. Sapendo, beninteso, dove cercare.

Sono esposte 22 tele, non molte a dire la verità, tutte comunque tranne una eseguite ad Alassio, ma sufficienti a farsi un’idea sul percorso pitturico di Levi, dato che coprono un arco di tempo molto ampio. Dalle prime vedute di Alassio del 1928, alle istantanee dipinte in Villa negli anni ’30, ai ritratti realizzati in più fasi, fino alla serie dei Carrubi degli anni ’70. A completare l’allestimento, curato dagli architetti Sandra Gatti e Pietro Fantoni, i quali hanno progettato uno spazio senza linee parallele e ortogonali, seguendo il principio dell’avversione di Levi per la rigida schematicità, tre teche (una per ogni sala) contenenti libri, carte, lettere, telegrammi, manoscritti, dediche dell’autore.

Una delle tre sale della Pinacoteca Levi

A questo punto la domanda sorge spontanea: ma per quale motivo un’esposizione permanente di Carlo Levi proprio ad Alassio? La risposta è semplice: perché la famiglia Levi lì possedeva una villa, che ora è stata acquistata da Antonio Ricci (quello del Drive In e di Striscia la Notizia tanto per intenderci). Il padre di Carlo, Ercole, la comprò all’inizio degli anni ’20 del secolo scorso grazie alle fortune accumulate nel commercio di stoffe in Inghilterra. Un posto dove passare le vacanze estive, lontano per qualche settimana dai problemi della quotidianità torinese, fatta di affari e di tempo rubato alla famiglia.

Diciamo subito che Villa Levi non si trova a ridosso del mare, accatastata alle altre case. Per raggiungerla e conquistarla occorre inerpicarsi sulle ripide strade subito sopra l’Aurelia. È a un centinaio di metri di altezza, quasi nascosta dalla vegetazione. Chi l’ha abitata, nel caso che interessa a noi Carlo Levi, può osservare senza essere osservato. Non parliamo solo dei movimenti degli uomini che vanno e vengono in un continuo affaccendarsi senza sosta alla ricerca di chissà cosa sanno solo loro, ma soprattutto della Natura che vive dei suoi tempi lenti ma inesorabili. La stessa Natura che permette, se avvicinata con la delicatezza degli strumenti adatti, di assaporare la vita in maniera più piena e genuina.

Non stupisce che per Carlo Levi la residenza ligure sia sempre stata considerata un privilegiato buen retiro, un’Arcadia ben fissata nella mente e mai desiderata così ardentemente come nei momenti di sconforto. Dal confino in Lucania (agosto 1935 – maggio 1936) e poi soprattutto durante la Guerra. Un mese dopo la Liberazione egli scrisse da Firenze all’amata sorella Lelle: «speriamo di trovarci tutti, quest’estate, a Alassio, come nei vecchi tempi. Sarà così, per un momento, come se la guerra non fosse iniziata».

La villa fu quindi un saldo punto di riferimento per quasi cinquant’anni, dal 1929 al 1974. Il luogo dove riposarsi certo, ma attraverso l’otium romano, un dolce far niente solo apparente che permetteva a Levi, da buon intellettuale quale era, di essere sempre al lavoro. Un aspetto che non è semplice da capire, se pensiamo ai tormenti di Joseph Conrad che si chiedeva spesso: Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?.

Carlo Levi, Sottobosco ad Alassio, 1971, olio su tela

Guido Sacerdoti, nipote di Carlo Levi e pittore a sua volta (i suoi quadri hanno un enorme debito artistico nei confronti di quelli dello zio), scrive nel saggio introduttivo al catalogo della Pinacoteca che «Alassio, al pari della Lucania, come è stato ripetutamente sottolineato, prima di essere un luogo geografico, è una sorta di dimensione dello spirito». Come lo erano state le Langhe per Pavese, la Sanremo per Calvino e la Dublino per Joyce, «scenari inventati, luoghi di una infanzia e di una giovinezza mitologica, e se vogliamo azzardare una terminologia psicoanalitica, proiezioni di ricordi, di fantasmi, e perché no?, anche di conflitti e di angosce».

A questo punto è necessario inoltrarsi nella produzione di Carlo Levi, legata a doppio filo alle sue esperienze biografiche. Sarebbe dispersivo elencare qui tutte le tappe della sua vita che ha abbracciato buona parte del Novecento italiano (per approfondire cliccare qui), tuttavia possiamo menzionare le principali: la nascita il 29 novembre 1902 a Torino, l’incontro con Piero Gobetti nel 1918 e successivamente con Felice Casorati nel 1923, la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1928, l’esordio nel Gruppo dei Sei di Torino nel 1929, l’arresto ad Alassio il 13 marzo del 1934, il già citato confino in Lucania dal 3 agosto 1935 al 20 maggio 1936, l’adesione al Partito d’Azione nel 1941, la pubblicazione con Einaudi Cristo si è fermato a Eboli, senz’altro il suo libro più famoso, al quale seguiranno, tra gli altri, Paura della libertà, L’Orologio, Le parole sono pietre, Un volto che ci somiglia. Nel Dopoguerra la sua attività politica, artistica e letteraria si intensifica fino alla morte, sopraggiunta il 4 gennaio 1975.

I lavori pittorici di Carlo Levi agli esordi sono profondamente influenzati dalla scoperta di Felice Casorati che introdusse il giovane al simbolismo di Klimt, alla Secessione Viennese e – aspetto importante – con gli ambienti liberali che avevano come figure di riferimento Piero Gobetti e Lionello Venturi. Lo stesso Venturi che, con Edoardo Persico, tenne a battesimo il Gruppo dei Sei, composto, oltre che da Levi, da Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio, Enrico Paulucci e Jessie Boswell. La volontà era quella di ispirarsi all’arte francese, in particolare a Delacroix, a Cézanne e a Matisse, l’unica a essere moderna.

Carlo Levi, Bagnante, olio su tela, 1928

Nella Pinacoteca alassina l’adesione ai Sei è esemplificata dalla Bagnante del 1928, immagine elegante tipica dell’arte francese a partire da Ingres in avanti fino ad arrivare agli Impressionisti. I colori sono tenui, prevale l’azzurro del costume e dello sfondo sfumato, interrotto dal rosa che pone in risalto le forme rotonde del soggetto (la sorella Lelle o una delle cugine).

La Bagnante tuttavia in alcuni punti reca in sé già l’interesse di Levi per l’espressionismo di Soutine e di Kokoscha che gli permetterà di intraprendere un discorso più intimo e personale di denuncia nei confronti del Fascismo. Se Lelle sulla soglia del 1929 è ancora paragonabile alla Bagnante, così non si può dire de Il giardino della villa del 1932, de Il sentiero, sempre del ’32, e di Paesaggio con Capo Mele e valletta del 1933.

Lì il disegno scompare per lasciare posto al colore, al tubetto quasi spremuto direttamente sulla tela che dona pastosità materica all’insieme: ciò che è all’interno del quadro possiamo dire che diventi tridimensionale, un azzardato invito a toccare, ad accarezzare, così come si accarezza un albero, un ramo o una foglia durante una passeggiata.

Stessa sorte viene riservata ai ritratti: accademici il Papà in amaca del 1934, l’Autoritratto con pipa del 1940 e I nipoti del 1942, documentari il Contadino di Liguria del 1953 e i Bambini pellerossa del 1950, magnetico l’Italo Calvino del 1961: «ho fatto un ritratto di Calvino (è diventata una tradizione annuale) con la faccia verde, che gli piace molto», scrive Levi che ogni anno ospitava l’amico scrittore, assiduo frequentatore di Sanremo.

Carlo Levi, Ritratto di Italo Calvino, 1961, olio su tela

Infine non si può concludere senza indugiarsi sulla serie dei cinque Carrubi, esposti nella centrale sala a esedra di Palazzo Morteo. Carlo Levi li dipinse tra il 1971 e il 1972, un anno prima del distacco della retina che gli causerà una cecità temporanea. Sono il Carrubo morto sul sentiero, il Carrubo donna, Inferno e paradiso, Labirinto con ramo donna e Carrubo mostro. Sono delle proiezioni della vecchiaia che allude alla morte. L’artista osserva i tronchi contorti degli alberi presenti nella sua villa e vede delle immagini antropomorfe ben delineate. Anche qui il colore acrilico è pigiato sulla tela con l’aggiunta di sabbia, prevalgono i toni freddi.

Carlo Levi, Carrubo donna, 1971, acrilico su tela

Sacerdoti paragona l’Alassio di Levi alla Giverny di Monet. È ad Alassio che Levi trova il suo giardino delle ninfee, un Paradiso terrestre dove «un Levi-Adamo passeggia felice della sua solitudine sentendosi in completa simbiosi con il resto del Creato […] È la condizione dell’infanzia, del bambino che giuoca con i datteri delle palme nel giardino di Villa Levi. Ma è anche un’illusione dolorosamente smentita: che in quel Giardino innocente il tempo non esista, che non debbano comparire mai né la vecchiaia né la morte».

La vecchiaia e la morte purtroppo esistono, sono ineluttabili. Carlo Levi questo lo sapeva perfettamente, ma non amava piangersi addosso, bensì affrontava la questione con l’intelligente coscienza dell’accettazione. Per questo motivo scriveva queste parole: «Non ci saranno più altri carrubi? Altri tronchi? Non verrà su di terra un altro ramo? E se pur non venisse non sarebbe ugualmente primavera? È più lieto chi guarda se si vede giovane e verde e fiorente di luce ma lo è anche se si vede grigio e asciutto, e in terra in preda alle formiche. Perché in questo vedersi è la sua gioia». Aggiungiamo noi: per fortuna Carlo Levi si è fermato ad Alassio.

Massimiliano Muraro

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