L’Umberto Ravello enigmatico e melanconico di Angelo Gilardino

Enrico De Maria e Angelo Gilardino.

«Tutti gli uomini straordinari eccellenti nella filosofia, nella politica, nella poesia e nelle arti sono palesemente melanconici» sosteneva Aristotele. Un giudizio che nel corso dei secoli si è radicato profondamente nelle convinzioni dell’uomo e che è mutato a seconda dei periodi storici.

Ad esempio nel Medioevo la melanconia fu considerata alla stregua di un disordine psichico, al punto che la Chiesa la condannò al pari dell’accidia. Bisogna arrivare al XV secolo per una sua parziale riabilitazione, soprattutto grazie all’opera di Marsilio Ficino il quale, mediando la filosofia platonica con quella aristotelica, giunse ad affermare che essa era un dono divino. Nel 1500 poi la melanconia divenne quasi il marchio di fabbrica per distinguere un’artista geniale da uno mediocre.

L’opera forse più rappresentativa in tal senso è La Melanconia, incisione del 1514 di Albrecht Dürer, un manifesto allegorico di quel particolare stato d’animo. Senza dimenticare i casi di Michelangelo, Raffaello, Parmigianino, Hugo van der Goes, Annibale Carracci e, più avanti, Franz Xavier Messerschmidt, scultore tedesco della seconda metà del XVIII secolo, il cui caso è stato lucidamente analizzato da Rudolf e Margot Wittkower nel celebre “Nati sotto Saturno”.

Questa premessa è doverosa per spiegare la storia del pittore Umberto Ravello, raccontata da Angelo Gilardino. Il chitarrista e compositore vercellese ha presentato ieri nella Sala Conferenze della Fondazione CRV il suo libro “L’arco nel buio” (titolo suggerito dall’amico regista Marco Tullio Giordana) insieme al giornalista Enrico De Maria.

Un’altra breve premessa serve a capire il perché Gilardino abbia scelto proprio Ravello, «artista enigmatico che i vercellesi devono conoscere». Tutto parte dal 1991, anno in cui Gilardino venne in possesso del catalogo celebrativo dell’Istituto di Belle Arti di Vercelli. A regalarglielo fu Amedeo Corio che allora ricopriva la carica di presidente dell’Istituto stesso. Gilardino rimase folgorato da un paesaggio di Ravello, tanto da menzionarlo in un articolo commissionatogli da La Stampa.

Di Ravello poi non si parlò più sino al 2014 quando il Museo Borgogna gli dedicò una mostra. In quel lasso di tempo però Gilardino continuò a raccogliere materiale sull’artista. Una ricerca ricca di aneddoti (come ad esempio quello in cui lui e Umberto Uga vennero a sapere che un quadro di Ravello era esposto nell’ufficio di un funzionario al grattacielo Pirelli di Milano), scoperte e anche rifiuti. È questo in sintesi il lungo cammino che ha dato vita al libro “Un arco nel buio”.

Ma cosa sappiamo di Umberto Ravello? Che nacque il 5 febbraio del 1881 (pochi giorni prima a San Pietroburgo moriva Dostoevskij); che la sua famiglia era benestante, tanto da potergli permettere di vivere di sola pittura, senza peraltro ricavarne mai un soldo, e di viaggiare: Venezia, Firenze e Parigi i luoghi eletti; che tornò nella natia Vercelli a trascorrere gli ultimi mesi della sua vita prima di partire per il fronte dove morì il 13 dicembre del 1917, colpito a morte da una pallottola nemica. La retorica della patria vuole che prima esalare l’ultimo respiro incitò i compagni soldati a compiere il loro dovere, tuttavia Gilardino non ne è pienamente convinto (e noi con lui).

Sappiamo inoltre che fu legato a doppio filo alla famiglia Rossaro, in particolare a Olga che sposò, ma soprattutto a Edgardo, l’amico fraterno al quale indirizzò numerose lettere nei periodi di distacco e di solitudine. È dalla consultazione di queste missive che Gilardino ha compreso i turbamenti celati nell’animo di Ravello che nel corso della sua vita non fu mai soddisfatto della propria arte, esattamente come accade a coloro che sono “nati sotto Saturno”, i temperamenti melanconici dei quali si parlava all’inizio.

A quanto pare Ravello non espose mai, dipingeva per diletto, diremmo per far luce sul buio che aveva dentro. La prima mostra in cui il pubblico poté vedere le sue opere fu una collettiva che si tenne nel 1922, due anni dopo che in un locale di cascina Pozzolo, dove egli dimorò nell’ultimo periodo vercellese, furono trovati accatastati tutti i suoi quadri.

In quella esposizione il critico d’arte Guido Marangoni, nativo di Casanova Elvo, all’epoca conservatore del Castello Sforzesco di Milano e personaggio di spicco della politica e della cultura nazionale, oltre a scrivere il saggio introduttivo, si portò via con sé La risaia, uno dei dipinti migliori di Ravello, per destinarlo alla Galleria d’Arte Moderna del capoluogo lombardo. A questo punto Gilardino si chiede come mai Vercelli abbia dedicato una via a Marangoni, autore del furto, ma non al saccheggiato Ravello. Domanda probabilmente destinata a rimanere senza risposta.

Tornando a Ravello e concentrandosi maggiormente sulle caratteristiche della sua arte, possiamo dire che egli fu un isolato, non appartenne cioè a nessun movimento della sua epoca. In anni nei quali le avanguardie storiche nascevano e si consolidavano (vedi il Futurismo, il Cubismo o l’Espressionismo), in anni del soggiorno a Parigi, capitale mondiale della cultura, Ravello non solo si tenne ben distante da questi fenomeni e da quelli immediatamente precedenti (scrisse parole poco gentili a proposito dell’Impressionismo), ma preferì guardare a un’artista di matrice romantica, ovvero Arnold Böcklin, uno dei principali esponenti del Simbolismo, uomo tormentato dalla scelta tra il disegno o il colore, sempre in bilico tra l’apollineo e il dionisiaco.

Il Simbolismo di Böcklin però è di matrice mitologica, volto a evidenziare in maniera magniloquente ed evocativo l’interiorità, come si osserva nell’arcinota Isola dei Morti che ispirò parecchi artisti successivi, quali De Chirico e Dalì. Quello di Ravello invece è legato a temi più intimi e personali, con un taglio quasi psicanalitico. La vicinanza tra i due più che nei contenuti sta nella forma, in particolare nel colore che – per dirla come Volpi – «penetra nella psicologia in modo, per così dire, più musicale che visivo e il carattere timbrico richiama l’arte dei primitivi».

I suoi dipinti “en plein air” sono l’antitesi di quelli proposti dagli Impressionisti. Là il colore è sgargiante e il risultato vuole essere una rappresentazione oggettiva della realtà. In Ravello sono notturni, sovente cupi e tenebrosi, ma sempre con uno spiraglio di luce che anelano a una speranza di pace interiore. In una parola malinconici. In tal senso vale l’epitaffio che Angelo Gilardino, citando il filosofo francese Vladimir Jankélévitch, ha scelto per Umberto Ravello: «La malinconia è il prezzo della nascita dell’eterno nell’uomo».

Massimiliano Muraro

Love
Haha
Wow
Sad
Angry

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here