Il popolo di Kevin che non si allontana da quella casa: “Adesso sei l’angelo più bello”

Il rumore della morte è il silenzio. C’è tantissima gente davanti all’ingresso del condominio di corso XXVI Aprile dove vive Kevin Laganà, la più giovane vittima della tragedia di Brandizzo, tanto assurda quanto atroce. Eppure non si sente una parola. Kevin è lì, in mezzo ai familiari, alla sua ragazza, agli amici. Sono stretti in un abbraccio che nessuno può sciogliere, parlano a bassa voce, che è un modo di pregare.

Kevin è lì, nella sua Alfa bianca parcheggiata davanti a casa, al volante della quale era partito per il suo ultimo viaggio, verso Brandizzo, e che qualcuno ha riportato indietro: la macchina, quando avrebbe voluto riportare indietro il tempo. Sulla vettura una grande foto. Ma grandissima è l’immagine che troneggia sulla parte del condominio: Kevin che fissa un rapace appollaiato sul suo braccio sinistro.

E poi, poco più in là quella grande parete, la parete dei ricordi, la parete dei dolore. Inizialmente c’era solo una grande scritta: “In ogni risata ci sarà il tuo nome, per sempre nei nostri cuori, Kevin”. Ora attorno e sotto quella scritta, ci sono frasi toccanti e affettuose: “Vola più alto che puoi, sei l’angelo più bello”; “Sorridi sempre da lassù”; “Io sono Laganà”. Per citarne tre, tra le centinaia. E quindi palloncini, e foto, lumini, fiori, un mare di fiori, quasi tutti bianchi.

Kevin è lì. E nessuno vuole abbandonare quel portico, perché non sarebbe giusto. Passano le ore. L’Alfa bianca ricorda a tutti quella sera che nessuno avrebbe mai voluto che fosse arrivata. Kevin che va al lavoro perché quel lavoro era il suo orgoglio. Alla sua età, molti giovani che non sono ancora riusciti a trovare lavoro (o che non l’hanno ancora cercato), nell’ora in cui Kevin è uscito per andare a Brandizzo, vanno nei bar a tracannare birre e shottini. Lui voleva essere all’altezza di quel papà che adorava, dimostrandogli di essere ormai un uomo.

Il lavoro per la Si.Gi. Fer. che lo inorgogliva. C’era arrivato da poco più di un anno, dopo la licenza media alla “Verga” e il diploma al Ciofs, il Centro di formazione professionale delle suore salesiane in corso Italia,  un corso di studio analogo a quello frequentato, qualche anno prima, al Don Bosco, anche da un’altra vittima di quella sera maledetta, Michael Zanera. L’aveva fortemente voluto quel lavoro sui binari, non saltando mai non solo un giorno, ma nemmeno un’ora di servizio. Un lavoro faticoso, di responsabilità, ma non pericoloso, impensabile che fosse pericoloso.

E dunque, mentre gran parte del mondo dei giovani – i suoi coetanei – trascorreva diversamente la notte, Kevin sudava sui binari, felice di sapere che papà Massimo era orgoglioso di lui. Quel papà-esempio, cui mandava in continuazione messaggi d’affetto. L’ultimo, un’ora prima di venire ucciso in modo assurdo “per un difetto di comunicazione”, nell’era della comunicazione: “Papà, ti amo”.

Il popolo di Kevin, che per nessuno motivo si muove adesso da lì, da sotto casa, pensa ad una sola cosa: che non si può morire a vent’anni mentre stai lavorando per rendere migliore la vita agli altri. Solo a quello si pensa. Alla spicciolata arriva tanta altra gente qualcuno si fa il segno della croce, c’è chi deposita un fiore, chi stringe il braccio ai familiari, allo zio Giovanni. Si vorrebbe dire qualcosa, ma non ci possono essere parole, non ci sono parole.

Il dolore di Vercelli è lì, davanti a quella parete di scritte, fiori e palloncini. Davanti a quel silenzio composto, davanti alla foto di un giovane che fissa un rapace, pronto a liberarlo perché voli in alto. Un giovane che si stava costruendo il futuro ed il cui volo verso la vita è stato troncato in una notte bastarda, assurda, atroce. Con altre quattro vite. Mamme, padri, mogli, figli che avevano ricevuto un saluto, non sapendo che non sarebbe stato il solito, non sapendo che sarebbe stato l’ultimo. Un saluto che non dimenticheranno mai.

 

.         Edm

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