Gianni Minà, la voce di tutti i Sud del Mondo

Vivere una vita a braccetto con la storia, quella manifesta e quella che si cela ai nostri occhi. È ciò che ha fatto Gianni Minà, scomparso ieri a Roma all’età di 84 anni, giornalista tutto d’un pezzo, di quelli che purtroppo si trovano sempre più raramente in giro.

Basta pensare a un qualsiasi personaggio famoso del secondo Novecento fino a oggi e c’è da stare sicuri che lui lo ha intervistato. L’elenco è lungo, tanto che a citare un nome si corre il rischio di lasciarne fuori altri dieci. Politici, scrittori, filosofi, poeti, registi, attori, musicisti, sportivi: tutti prima o poi sono passati dal suo microfono e dalla sua penna.

E immagino non abbiano fatto nemmeno troppo storie per concedersi, anzi, il più delle volte per loro era un piacere fare quattro chiacchiere con Minà. Perché erano consapevoli che a lui non interessavano come strumenti per raggiungere lo scoop (vizio incorreggibile del giornalismo, specie quello contemporaneo), ma erano prima di tutto degli uomini che davanti alle sue domande si aprivano come non avrebbero fatto neanche con il loro migliore amico.

Il grande pregio di Minà è stato quello di interfacciarsi con chiunque si trovasse di fronte in un modo amichevole, senza malizie di sorta, con un’ironia e uno stile che appartengono solo ai grandi. Lo sapevano Fidel Castro, Gabriel García Márquez, Muhammad Alì, Diego Armando Maradona, Robert De Niro, Massimo TroisiFabrizio De Andrè, Federico Fellini, solo per dirne alcuni.

Gianni Minà era, come si dice, uno che sapeva stare al suo posto, perché quel posto lo conosceva bene, lo aveva coltivato con cura e amore, fino a renderlo un rifugio confortevole per le persone che avevano deciso di raccontarsi e di farsi raccontare da lui. Con garbo era riuscito a rendere pubblico ciò che di solito si confessa nel privato, lasciando sempre fuori dalla porta ogni tipo di volgarità e di curiosità morbosa attorno a fatti personali sui quali magari le riviste scandalistiche ricamavano sopra ogni sorta di falsità per vendere qualche copia in più.

Tanto per dirne una, Diego Armando Maradona, che di Minà fu intimo amico, dopo una vittoria con il Napoli, ancora in campo e sudato, attorniato da una folla di microfoni, telecamere e tifosi che lo volevano abbracciare, corse via negli spogliatoi snobbando tutti e dicendo soltanto: «Vado che ho promesso un’intervista a Gianni».

Maradona di periodi bui ne ha avuti tanti nella sua vita, ma alla fine se doveva parlare con qualcuno parlava sempre con Minà che infine gli ha dedicato uno dei suoi ultimi libri Non sarò mai un uomo comune. Il calcio al tempo di Diego, scritto a caldo dopo la scomparsa del Pibe de Oro.

La narrazione di Minà è lineare, confidenziale e precisa. Traspare in essa tutto l’affetto provato per il campione, ma soprattutto per l’uomo e le sue fragilità. Quando si arriva all’ultima pagina si capisce che l’obiettività del giornalista è andata un po’ a farsi benedire, però la si perdona perché alla fine non è Minà che racconta Maradona, ma Gianni che racconta Diego.

Lo stesso approccio si trova nelle interviste faccia a faccia, celebri ad esempio quelle a Marco Pantani e a Paolo Rossi. Come fece Beppe Viola che incontrò Gianni Rivera su un tram, allo stesso modo Minà dialoga con Pablito su un pullman, aggiungendo però un pezzo in più alla sceneggiatura. Rossi infatti gli apre le porte di casa e risponde comodamente seduto sul divano o mentre sta giocando con il figlio. Parla del Mundial ’82, dei gol che fecero trionfare l’Italia, ma anche degli anni bui in cui era stato coinvolto nel calcio scommesse.

La prima immagine che ho di Minà, e come me scommetto tanti, è televisiva. Ricordo quest’uomo dall’aria bonaria e rassicurante che incalzava tutti quelli che invitava nel suo studio e loro rispondevano senza sentirsi attaccati. Anche uno notoriamente schivo come De Andrè accettò di aprirsi a Blitz, l’innovativa trasmissione della domenica pomeriggio di Rai 2.

Più tardi scoprii un altro Gianni Minà. Latinoamerica e tutti i sud del mondo, rivista che diresse dal 2000 al 2015 mi aprì le porte a una nuova visione del mondo. Quando ero studente a Parma non appena usciva il nuovo numero mi fiondavo in libreria. Fu attraverso quelle pagine che imparai a conoscere una realtà diversa, lontana anni luce da quella raccontata dalla stampa ufficiale che si occupava principalmente del cosiddetto mondo occidentale schiacciato tra America e Russia.

Latinoamerica no. Dava voce a chi voce non l’aveva. A tutti i sud del mondo appunto. Ci scrivevano autori come Noam Chomsky, Michael Lowry, Luis Sepùlveda, Eduardo Galeano, Paco Ignacio Taibo II, Rigoberta Menchù, Alex Zanotelli. Venivano affrontati problemi e tematiche di paesi e zone che potremmo definire borderline. Gli effetti che le scelte economiche e politiche di chi deteneva il potere mondiale avevano su nazioni più povere e come queste potevano rompere equilibri molto sottili.

Ad aprire Latinoamerica era sempre l’editoriale di Gianni Minà che sovente si chiedeva per quale motivo certe notizie non trovavano spazio nei nostri giornali o erano trascurate. Scriveva nel 2002: «Le nazioni che ora sembrano avere in mano i destini del mondo, pur essendo costrette a rinchiudere in una montagna canadese i loro dirigenti per decidere improbabili strategie da far accettare al terzo mondo, devono ancora incominciare a capire che il tempo della spoliazione dell’ottanta per cento dell’umanità in nome delle “indiscutibili leggi ed esigenze dell’economia” è finito».

Un assunto valido ancora oggi (forse oggi è anche più pregnante). Purtroppo però le nazioni di cui parlava Minà proseguono nelle loro spoliazioni che sfortunatamente in molti casi sono poi sfociate in guerre fratricide e senza senso alcuno.

Nonostante ciò Minà, che per primo sapeva di essere un novello Don Chisciotte nella sua battaglia contro i mulini a vento, non ha mai smesso di analizzare il mondo che lo circondava, raccontandolo senza remore, né schermature dettate dal potere ed evidenziando i suoi paradossi. È stato un uomo libero e a noi ha insegnato che bisogna osservare ciò che ci circonda da ogni angolazione. Con puntiglio, con severità, con pacatezza, arrabbiandosi quando serve. Ma anche con un bel sorriso sulle labbra.

Massimiliano Muraro

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1 commento

  1. Paciose, affettuose, mai troppo approfondite interviste, Minà lasciava parlare le personalità che gli concedevano d’esser avvicinati, faceva intender di esser loro vicino, ma senza troppo interloquire nello sviluppo del “dialogo”, senza trionfalismo, se non nei toni. Gli era implicitamente vietato esser apertamente polemici con l’occidente, pena la perdita del lavoro (proprio come accade oggi) .. Gianni Minà impersona il massimo concedibile alla sinistra nell’epoca democristiana .. gli si lasciava briglia sciolta (ma piuttosto corta) pagando il minimo sindacale al sentire comune di molti cittadini a seguito dei vorticosi progressi del Pci.. es. nell’intervista a Fidel e cantando il Che .. sembra a chi vedeva il tg, le tribune elettorali e i sevizi dal mondo .. pur sempre parte di una una “dittatura” .. in mimetica (poco elegante), era la sinistra povera di allora, dopo la caduta della dittatura di Batista
    Mica intervisto’ russi, o i vietnamiti. Anche allora quelli la erano troppo cattivi perché gli ingenui elettori italiani vi potessero resistere. Meglio evitare.
    ..
    Fidel racconta il Che
    https://www.youtube.com/watch?v=tgNPCzGhJK8

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