DIVERGENZE 103 – Oggi compie 80 anni Livio Berruti, la gazzella delle risaie

Lo storico tuffo di Berruti sul filo di lana a Roma

 

Compie 80 anni oggi, domenica 19 maggio 2019, l’italiano che ha realizzato probabilmente la più grande impresa sportiva individuale della storia del nostro Paese: Livio Berruti, la gazzella della risaia.

Livio nasce a Torino appunto il 19 maggio di ottant’anni fa, un venerdì, ma vive l’intera giovinezza (una giovinezza di guerra) nel Vercellese, perché mamma Alda Perucca, che è di Stroppiana pensa, con papà Michele, perito chimico che lavora all’Arsenale di Torino, che il figlio possa sentire più lontano il conflitto, se accudito dai nonni in mezzo a nebbie e risaie. La scelta si rivelerà decisiva anche per lo sport italiano perché lungo gli argini dei fossi, dei canali irrigui della Bassa vercellese, il piccolo Livio incomincia ad inseguire cani e gatti, e spesso ad acchiapparli per giocarci. 

La giovane gazzella bianca – quella nera era l’immensa Wilma Rudolph – che correva forte come gli animali da cortile, sabato 3 settembre 1960, a Roma, ha regalato allo sport italiano la medaglia forse più importante della sua storia olimpica. Intendiamoci, tutte le vittorie olimpiche sono qualcosa di semplicemente enorme, ma, se è vero che l’atletica è la Regina dei giochi,  quella del ventunenne Livio Berruti all’Olimpico di Roma ha un significato speciale perché quel giorno, prima in semifinale e poi in finale, correndo con il record del mondo (20” e 5), egli ha battuto tutti i migliori, tre co-primatisti mondiali, lo squadrone statunitense, e gli europei più titolati. 

Anche un altro italiano, vent’anni dopo, a Mosca, sarebbe riuscito nell’impresa, ma, pur essendo Pietro Mennea un altro atleta sensazionale, giustamente celebrato in tutto il mondo, non c’è confronto tra le due imprese perché i Giochi di Mosca furono boicottati dagli Usa e dunque la gara dei duecento piani – che pur verrà ricordata per la prodigiosa rimonta di Mennea sullo scozzese Wells, che mandò in delirio l’Italia intera – non ebbe tra i sicuri protagonisti atleti che avrebbero potuto impegnare sia Mennea sia Wells.

E se è pur vero che il grande atleta barlettano si presentò ai blocchi di partenza con il record del mondo stabilito in altura l’anno prima (19” e 72: tuttora è record europeo!), è altrettanto vero che quella gara fu monca, mentre a Roma c’erano tutti, ma proprio tutti.

Livio Berruti, oggi: anche la Mole Antonelliana lo ha celebrato

Di quel 3 settembre del ‘60, tutti coloro che videro l’impresa di Berruti in tivù serbano il ricordo dei colombi bianchi che, proprio nel momento in cui Livio affrontò la sua curva capolavoro, si alzarono in volo, quasi un auspicio di ciò che si sarebbe consumato pochi secondi dopo. Raccontandomi quella gara, Livio Berruti, di cui poi sono diventato amico, mi parlò soprattutto di due cose che gli sono rimaste impresse: il terrore di essersi stancato troppo nella semifinale, avendo eguagliato per la prima volta il mondiale (che apparteneva all’inglese Radford e agli statunitensi Johnson e Norton), perché la finale era programmata appena un’ora e un quarto dopo, e lo scalpiccio dello statunitense Carney, il meno accreditato dei tre finalisti Usa, che stava cogliendo, sempre più vicino, nella corsia alla sua destra. Vicino, ma sempre dietro, inesorabilmente dietro.

Livio ha raccontato quei duecento metri migliaia, forse milioni di volte. Generazioni di italiani li hanno visti e rivisti. Quel giorno, Berruti correva con gli occhiali (una rarità) e intascò dalla Fidal 800 mila lire per la vittoria più 400 mila per il record mondiale (ripetuto in finale): una cifra che non gli consentì nemmeno di comprarsi – se non integrandola di tasca sua – la sospirata “Giulietta”, sogno di tanti giovani come lui. Oggi con un titolo olimpico impreziosito dal mondiale ti compri una scuderia di Ferrari.

Nei cinquantanove anni trascorsi da quel giorno, Livio ha fatto innumerevoli cose: altre imprese sportive (a Tokyo ‘64, penalizzato dall’infelice corsia battuta dai mezzofondisti, arrivò quinto nella finale dei duecento, primo degli europei), una carriera importante in Fiat e nella Sestriere Spa, e, purtroppo, anche un gravissimo incidente stradale che, quasi, gli costò la vita.

Si è anche sposato, a 59 anni, con Silvia Balma, avvocato di Borgofranco d’Ivrea. Vive a Torino, ma di tanto in tanto riappare a Stroppiana e, spesso inatteso, spunta a qualche conviviale del Panathlon di Vercelli, al quale è iscritto.

Puntualmente i giornali gli hanno chiesto di commentare, negli anni,  le imprese dei vari Tommie Smith, Carl Lewis, Michael Johnson, Usain Bolt. Ha sempre parlato di tutti questi campioni con grande franchezza ed efficacia, ribadendo spesso che, per lui, il più grande velocista resta il Bob Hayes che vinse i cento piani a Tokyo, dando una decina di metri di distacco al secondo.

Inoltre ammira Filippo Tortu – con il quale oggi celebrerà il compleanno, assieme a Franco Arese, a Sara Simeoni – in cui rivede una sorta di se stesso, il ragazzo non particolarmente muscolato dall’aspetto di studioso e gran lettore di libri (quale lui era, anzi è), che mise in riga il mondo. Perché le gazzelle non hanno bisogno di gonfiare i muscoli per correre veloci come il vento, talvolta assai più veloci del vento.

Buon compleanno, campione.

ENRICO DE MARIA 

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