Destinatario sconosciuto: uno spettacolo che colpisce al cuore

Una goccia di sudore scende lungo la schiena e un misto di rabbia e impotenza pervade lo spettatore. Succede quando le milizie di Hitler portano via la giovane attrice ebrea Griselle Eisenstein davanti agli occhi di Martin Schulse che nulla ha fatto per proteggerla, sacrificando in un sol colpo la vita della donna un tempo amata e la fraterna amicizia con Max.

È la scena più drammatica di “Destinatario sconosciuto”, lo spettacolo in tre repliche da sold out allestito da Roberto Sbaratto e da Cinzia Ordine sulla drammaturgia di Paolo Zenoni che nel 2007 aveva realizzato per APPI (Associazione Piccoli Palcoscenici Italiani) la trasposizione teatrale del romanzo epistolare di Kathrine Kressmann Taylor, pubblicato nel 1938. Una trovata geniale perché a vederlo in un teatro istituzionale forse “Destinatario sconosciuto” non avrebbe avuto lo stesso impatto emotivo.

A ospitarlo la Sala delle Cinquecentine del Museo Leone, uno spazio inusuale che, proprio per la sua intimità e per la vicinanza estrema tra gli attori e il pubblico, ha reso al meglio la rappresentazione di un momento storico tra i più bui che la storia ricordi: l’avvento al potere di Adolf Hitler con tutto ciò che poi ne è seguito, spiegato attraverso un dialogo epistolare tra due uomini che il tempo e la Storia trasformano da amici in estranei e infine in nemici.

Aveva ragione Roberto Sbaratto quando alla presentazione dello spettacolo aveva detto che per comprendere è necessario ricordare. Meglio ancora se partendo da una vicenda di tutti i giorni, cosicché tutti quanti possano sapere che il male la maggior parte delle volte ha l’espressione anonima della banalità, intesa come quotidianità. Penetra nelle nostre vite senza che noi ce ne accorgiamo, o se ce ne accorgiamo non gli diamo troppo peso, fino a diventare abitudinario. È allora che è troppo tardi per rimediare. Ecco la risposta alla domanda “come è potuto succedere?”.

La storia di “Destinatario sconosciuto” vede in scena due personaggi, uno a fianco all’altro sul palco, ma distanti in termini di spazio: il tedesco Martin Schulse (Claudio Ridolfo) è a Monaco, l’ebreo americano Max Eisenstein (Roberto Sbaratto) a San Francisco. Una distanza che diventa siderale man mano che gli eventi precipitano. Martin ha lasciato l’America e la galleria che gestiva con l’amico Max per tornare in Germania. I due si tengono in contatto scrivendosi. Nelle loro lettere parlano di affari, di aspettative e soprattutto della piega che sta prendendo la Germania.

Il liberale Martin, che simboleggia in modo esemplare la mollezza e la miopia della borghesia teutonica di quegli anni, viene completamente affascinato dalla retorica nazista che gli promette una repentina ascesa sociale. Poco gli importa quale sarà il prezzo da pagare. Sono a dir poco sconvolgenti alcune frasi antisemite e la convinzione della supremazia della razza ariana, mentre lo sterminio è paragonato alla schiuma che bolle sulla superficie della pentola rivoluzionaria. Dall’altra parte dell’Oceano Max legge allibito le dichiarazioni dell’amico che non riconosce più e che cerca in ogni modo di dissuadere dai suoi folli propositi.

Martin, per non compromettersi con il regime, gli intima di non farsi più sentire e di interrompere i rapporti, ma Max insiste e chiede un ultimo favore: proteggere la sorella, un tempo amata da Martin, che corre un serio pericolo. Eisenstein capisce che le sue intuizioni sono esatte quando l’ultima lettera che ha spedito a Griselle ritorna indietro con la dicitura “destinatario sconosciuto”. Tuttavia Martin non se ne cura. Anzi, quando la giovane attrice ebrea arriva sconvolta a casa sua per cercare aiuto, egli la consegna ai due nazisti (Pino De Francesco e Paolo Ferini Strambi) senza nemmeno protestare, quasi con una certa accondiscendenza. Quella della cattura di Griselle (Elena Ferrari) è l’unica scena che viene rappresentata nello spettacolo in cui, per il resto, tutto viene descritto dalle letture di Sbaratto e di Ridolfo.

Max allora si guarda negli occhi con Martin (la distanza spaziale viene azzerata con un espediente che strizza l’occhio al cinema) e mette in atto la sua personale vendetta. Invia un fonogramma fasullo in cui fa credere che Martin appoggi gli ebrei. A questo seguono altre lettere in cui il gallerista inventa finti codici così da creare sospetto nelle autorità tedesche che naturalmente cascano nel tranello. Martin, in un’ultima disperata missiva scongiura l’ex amico di smetterla, ma è troppo tardi: le SS arrivano a casa sua e lo conducono via, presumibilmente in un campo di concentramento. Lo spettacolo si chiude con l’ultima lettera di Max a Martin, tornata indietro con il timbro “destinatario sconosciuto”, e con l’uomo che intona un canto ebraico. Il carnefice si è trasformato in vittima, il boia che lo giustizierà è il regime che lui tanto adorava.

“Destinatario sconosciuto” è un pugno nello stomaco che apre ferite non ancora rimarginate, ma è anche uno schiaffo in faccia a tutti coloro che hanno la memoria breve e che credono non si possano ripetere più episodi di questo tipo. Chi ha assistito allo spettacolo non potrà mai dimenticare il momento in cui Griselle, inseguita, bussa ai vetri della casa di Martin. Negli occhi impauriti della donna che va incontro al suo destino e nell’ignavia dell’uomo, incapace di prendere l’unica decisione che conta nella sua vita è scritta tutta la tragedia di quegli anni.

Massimiliano Muraro

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