L’affascinante storia degli affreschi cinquecenteschi di Palazzo Verga

Palazzo Verga, oggi sede di alcuni uffici della Regione Piemonte, è una delle residenze signorili più antiche e meglio conservate di Vercelli. Osservandolo dall’esterno magari non si nota, ma visitando le sale al suo interno è possibile trovarvi le varie stratificazioni storiche che lo hanno portato a essere ciò che è, fino ai giorni nostri. Nel corso della sua lunga vita ne ha viste parecchie, proprio come la casa raccontata da Vassalli in “Cuore di pietra”.

Questa sua peculiarità è testimoniata dal suo nome ridondante, che si legge nel cartello al suo ingresso: Palazzo Verga già dei Bellini e dei Confalonieri di Balocco poi Bormioli poi De Hallot des Hayes poi Caresana di Carisio. A pronunciarlo per intero, sembra di trovarsi di fronte a uno di quei nobili spagnoli secenteschi così bene descritti da Manzoni nei “Promessi Sposi”. Per brevità chiaramente è conosciuto solo come Palazzo Verga.

In “Andar per Vercelli”, ormai introvabile guida turistica del 1993 a cura di Italia Nostra, così viene descritto: «Si tratta di un palazzo di eccellente rilevanza architettonica risalente al secolo XV con tracce di decorazione nella facciata. Sono da segnalare vari ambienti con affreschi e soffitti a cassettoni là ove fu la casa dei Confalonieri di Balocco. Il cortile interno, chiuso sul lato opposto da un corpo di fabbrica della fine ‘700, ha un’impostazione chiaramente scenografica. Verso la fine del secolo XVIII vi furono probabilmente degli interventi dell’architetto Michele Richiardi».

Come è stato comunicato di recente (leggi qui), Palazzo Verga diverrà sede unica degli uffici regionali a Vercelli. Parallelamente è stata annunciata la volontà di recuperare alcuni degli ambienti soggetti a degrado, soprattutto quelli dell’ala vecchia, decorati con affreschi risalenti al principio del XVI secolo. Per questi interventi si è fatto il nome del Centro Restauro di Venaria che già ha operato con eccellenti risultati nell’ex chiesa di San Marco dove sono emersi, nel corso degli anni, pregevoli pitture murarie come ad esempio l’Albero di Jesse, le storie della Vergine, lo stemma dei Visconti e Sant’Antonio raffigurato come la Madonna della Misericordia.

Pochi vercellesi conoscono gli affreschi che si trovano nell’ala più antica di Palazzo Verga. Ancora meno quelli che possono dire di averli visti (chi scrive a suo tempo aveva fatto richiesta agli uffici della Regione). Si trovano nelle sale, ora in disuso, del corpo di fabbrica parallelo a via Manzoni. Sono sicuramente le opere che necessitano degli interventi più massicci, assieme agli stucchi e alle pitture del 1600 e del 1700 che sono nella parte opposta e più recente dell’edificio.

Gli affreschi di Palazzo Verga rappresentano, assieme a quelli di Casa Alciati e di Palazzo Centoris, l’esempio più illuminante a Vercelli della cosiddetta cultura cortigiana e della civiltà delle grottesche che si diffusero da Roma a partire dalla fine del XV secolo. A portarle in Piemonte ci pensò un nutrito gruppo di giovani artisti in cerca di stimoli freschi e desiderosi di rinnovare il linguaggio pittorico del loro tempo. Tra costoro Eusebio Ferrari che nel viaggio di formazione nell’Urbe pare si sia portato appresso Gaudenzio.

Erano i primi anni del 1500, Roma era in piena ricostruzione, grazie alla lungimiranza di alcuni potenti papi, e si apprestava a vivere l’opulenza di una volta, dopo i periodi bui da poco trascorsi. Tappa obbligata in quegli anni era la Domus Aurea, la villa urbana che l’imperatore Nerone si fece costruire a Roma tra il 64 e il 68 d.C., scoperta alla fine del 1400 in maniera del tutto fortuita. Al suo interno i dipinti murali che la abbellivano si erano miracolosamente mantenuti intatti. Se a ciò uniamo la riscoperta del mondo classico, greco e romano, ecco che il quadro diventa più nitido.

Tutti i giovani artisti, tra i quali Michelangelo e Raffaello, non senza un pizzico di pericolo si facevano calare con le corde per andare a osservare i dipinti più da vicino. Tanti, così come è uso oggi, volevano lasciare un segno del loro passaggio. Così, sulla volta della dimora imperiale, tra le tante, è stata trovata anche una firma che reca la dicitura “Eusebio de Vercelli”, il che rimanda proprio a Eusebio Ferrari, il quale all’interno della Domus Aurea scopriva un mondo figurativo fino allora rimasto nascosto.

Tra gli elementi di novità c’erano le grottesche, le decorazioni pittoriche antiche a motivi geometrici o floreali che in pittura conserveranno caratteri e funzioni di elemento architettonico, ad esempio come spartizione di scene contigue, con la stesura monocroma che allude alla consistenza della pietra o del marmo. Le grottesche diventarono in breve tempo una vera e propria moda, tanto che, da quel momento in avanti, le troveremo quasi sempre come ornamento nelle sale dei palazzi gentilizi e pure nelle chiese.

Il nostro Eusebio Ferrari, e come lui tanti suoi colleghi, visitò anche la Farnesina, la villa suburbana che il potente banchiere Agostino Chigi si fece costruire da Baldassarre Peruzzi e affrescare da quest’ultimo, da Sebastiano del Piombo, Raffaello e Sodoma. Lì conobbe un altro tipo di pittura: quella non più a soggetto religioso, ma mitologico (altra soluzione mutuata dal mondo classico).

L’artista si appuntò tutto con dovizia di particolari sul suo taccuino e, una volta tornato a Vercelli, decise di mettere in pratica quello che aveva studiato a Roma. Ecco allora che in quel periodo, cioè all’inizio del XVI secolo, anche la nostra città conobbe la pittura cortigiana e le grottesche. Più in generale rinnovò il suo bagaglio con spunti provenienti dall’Italia Centrale. Eusebio Ferrari fu attivo in questa direzione a Palazzo Verga (così sostiene Giovanni Romano in un saggio del 1984) e, presumibilmente, anche a Casa Alciati, dove però non abbiamo la certezza della sua presenza. Va tuttavia detto che in quest’ultimo caso, se non è stato Ferrari ad agire di propria mano, di sicuro è stato qualcuno della sua cerchia.

Così nel primo nucleo di Palazzo Verga, quello che ospitò la residenza del protonotaro Annibale Paleologo, tra il 1506 e il 1508, Eusebio Ferrari, forse aiutato da alcuni allievi, dipinse una serie di affreschi rappresentanti tondi maschili e femminili, alcuni dei quali crediamo raffigurino i ritratti dei committenti, circondati da putti e inseriti in pareti decorate a finto marmo alternate a grottesche a sfondo giallo, simili a quelli visti nel castello malatestiano di Gradara che la leggenda vuole abbia fatto da sfondo alla tragica storia d’amore di Paolo e Francesca.

Oggi gli affreschi di Palazzo Verga sono parzialmente visibili, ma in pessimo stato di conservazione, attaccati dall’umidità e dalle efflorescenze saline. Ecco perché un intervento di restauro è necessario: per riportarli agli antichi splendori, così come è stato fatto anni fa con quelli coevi di Casa Alciati. Secondo l’intenzione della Regione c’è un vivo interesse a recuperare non solo la struttura, visto che a Palazzo Verga dovrebbero trasferirsi tutti gli uffici, ma anche l’apparato pittorico, sia quello più antico e del quale abbiamo parlato, sia quello più recente. Un’impresa che se andasse a buon fine consegnerebbe ai vercellesi una preziosa testimonianza del loro passato.

Massimiliano Muraro

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