Alceo Mantoan, uno dei tre componenti il leggendario gruppo folk dei “Celti”, si è spento questa notte all’ospedale “Sant’Andrea” di Vercelli, dov’era ricoverato dal 2 agosto per un’emorragia cerebrale. Avrebbe compiuto 78 anni il prossimo 10 novembre. Lascia la moglie Antonella, il figlio Gianni e la figlia Mariella, con le rispettive famiglie. I funerali saranno celebrati venerdì alle 10,30 nella chiesa di Billiemme, dove domani, giovedì, alle 17, verrà recitato il Rosario. La città ha appreso la notizia questa mattina e il cordoglio e la commozione sono immensi.
Questo il ricordo del giornalista e amico Enrico De Maria, che ha condiviso per cinquant’anni il percorso artistico dei “Celti”, che portarono al successo (ed era proprio il “Ceo” a cantarla) la canzone del padre Pino “‘Na sera a’la stasion”, l’”inno nazionale” (come è stato definito) di Vercelli. Nel 2007, i “Celti” furono insigniti del riconoscimento “Bicciolano d’oro”.
Caro Ceo,
Ricordo ancora la commozione di mio padre quando, per la prima volta, all’inizio degli Anni Settanta, poco prima di lasciarci, venne ad ascoltare “I Celti”. Ricordo la sua gioia, immensa – probabilmente l’ultima della sua breve vita – nel sentire la sua “Puvra d’ ris” (“‘Na sera a’la stasion…”) per la prima volta eseguita da qualcuno che non fosse lui stesso, accompagnato da qualche amico alla chitarra, e ricordo la sua emozione, incommensurabile quando, nel ‘71 uscì il primo dei vostri preziosi e pressoché introvabili dischi: “Oh che sità!”, in cui ovviamente, cantata da te, c’era anche “Puvra d’ ris”.
Ma ricordo anche ciò che provai io a vedere papà euforico e ad ascoltare, oltre a “Puvra d’ ris” anche le altre vostre canzoni: “Oh Signur”, “I fasin-i”, il “Gin Gin”, etc. E ciò che provai – per sempre – ascoltandosi era quello che, ammirati e commossi, incominciarono a provare allora tutti i vercellesi.
Da quei primi giorni, dai tre dischi, incisi quasi consecutivamente nell’arco di un triennio (il secondo fu “Cara Ustaria”, il terzo il “live” del memorabile concerto all’Astra del 26 novembre 1973), voi eravate il richiamo principale di tutte le serate folk al Civico o altrove. Col Cecco Leale ne organizzammo decine, forse centinaia. E, nei “Memorial del Folk”, utilizzavamo sempre questo stratagemma: vi facevamo aprire la serata con il “Gin Gin” e poi, dopo le esibizioni di tutti gli altri, ve la facevamo sempre concludere per far sì che, per ascoltarvi, nessuno abbandonasse il posto in platea. Di tanto in tanto, voi proponevate qualche novità nel programma, ma non c’era verso di fare cambiare idea o gusti al vostro pubblico, che vi chiedeva sempre le stesse canzoni, soprattutto quelle del primo long playing; non solo ve le chiedeva, vi acclamava, cantava con voi.
In quel trio, fantastico, inarrivabile, ciascuno di voi tre s’era ritagliato un ruolo, Cesare era quello che potremmo definire, oggi (ma lui si sarebbe fatto una matta risata), il “frontman”, la voce, con quel suo dialetto meraviglioso capace di tenerezze e di trascinamenti. E poi c’era il Beppe, chitarrista di assoluto valore. Una sera, verso la metà degli Anni Settanta, se non ricordo male durante una Festa dell’Unità, in un circolo del Pci in centro, venne ad ascoltarvi Angelo Gilardino, chitarrista sommo. Al termine, timido e imbarazzato, il Beppe andò a ringraziarlo e gli disse: “Maestro potrei venire da lei per migliorare il mio modo di suonare?”. “Non ho proprio niente da insegnarti, sei bravissimo così”, gli risposte il riconosciuto erede di Segovia.
E infine c’eri tu, Ceo. Arrivasti nel gruppo poco dopo gli altri, presentato al Cesare e al Beppe dal Piero Casolaro nella sua osteria di Porta Casale. Il tuo nome d’arte era “Almar”. Introducesti, come ha scritto il grande esperto di musica vercellese Bruno Casalino “l’effervescenza del cabaret” nei vostri spettacoli. Le tue interpretazioni di brani anche un po’ goliardici come “Le rose del giardino”, “L’Antunièta”, “Le rivami mia fumna ‘nte cruste…” erano squarci di commedia dell’arte, in cui la tua mimica accendeva la scena con un impatto unico tra il pubblico. Quel pubblico, che ti adorava e che cantava con le “E le rose del giardino / ah ah ) della madre superiora…”.
Nell’ottobre del 1982, in quel maledetto ottobre, un’emorragia cerebrale (come è successo a te, trentotto anni dopo), si portò via, a soli 50 anni, il Cesare. Il colpo fu terribile, per un’intera città, e soprattutto per voi due, che pensaste di lasciare. Ma non si poteva. C’era da onorare il ricordo del vostro leader e c’era da conservare le vostre canzoni. Ve le riassegnaste, e spesso le cantavate a due voci. Non mancaste mai ad un appuntamento in cui la vostra presenza sarebbe stata cara e indispensabile: penso, per quanto mi riguarda, a decine di “Memorial del Folk” (l’ultimo, organizzato dal Tony e da me alle “Acacie”, il 31 marzo del 2017), alle premiazioni del Concorso di Poesia dialettale “Cesare Filippone”, agli incontri del Carnevale nelle vie intitolate al Cesare e a mio padre: per quanto riguarda “via Giuseppe De Maria”, foste ovviamente presenti (e mia mamma ne fu felice) all’inaugurazione ad opera del sindaco Corsaro, il 23 dicembre del 2004, e poi ci tornaste tante altre volte per cantare tutti assieme, con i vari Bicciolani e Bèli Majin, “‘Na sera a’la stasion”.
Caro “Ceo”, quanti ricordi, oggi mai così dolorosi. La prima estate del Covid si è portata via tante persone care, e oggi è toccato a te. Con tutti gli accorgimenti sanitari di legge indispensabili, in qualche modo ti è potuta stare vicina la tua Antonella. E se fisicamente non l’hai percepita, sono sicuro che in qualche modo tu abbia colto la sua presenza: in quel modo misterioso che consente ai sognatori, ai poeti, alle anime belle di non lasciare mai da soli il mondo che hanno contribuito ad allietare.
E tu sei stato uno dei principali dispensatori di allegria e serenità che Vercelli abbia avuto nell’ultimo secolo. Ogni volta che qualcuno (penso all’amico Valter Ganzaroli) intonerà “Puvra d’ ris”, io penserò sempre a te, alla “prima volta” di mio padre, in quel lontano 1970. E’ triste che se ne sia andato troppo presto perché, conoscendolo, e conoscendoti, sono sicuro che avreste combinato qualcosa assieme. E adesso, Lassù, sbizzarritevi con “Puvra d’ ris”. Gli angeli apprezzeranno e, ne sono certo, magari anche Qualcuno sopra di loro.
Ciao Ceo, arposa ‘n pas
Enrico





