L’Adelphi di Roberto Calasso: l’editoria come opera d’arte

È una perdita pesante per la cultura italiana quella di Roberto Calasso, scomparso mercoledì 28 luglio a Milano all’età di 80 anni. Nato a Firenze il 30 maggio del 1941, Calasso, dopo essersi laureato in letteratura inglese con Mario Praz, nel 1962 è tra i fondatori di Adelphi, la casa editrice di cui nel 1971 diventerà direttore editoriale. Impossibile non pensare a Calasso quando si parla di Adelphi.

Calasso non è solo in quell’avventura. Con lui ci sono Luciano Foà, che nel frattempo era fuoriuscito da Einaudi, e il triestino Bobi Bazlen, traduttore negli anni ’40 di Freud e di Jung. Mancano i capitali, ma quelli glieli forniscono Roberto Olivetti (figlio di Adriano), Alberto Zevi e in parte lo stesso Foà. Poi, quando Olivetti se ne va, nel CdA arrivano Falck e Pellizzi.

Come simbolo della neonata casa editrice viene scelto un antico ideogramma cinese che rappresenta la luna nuova e l’opposizione di vita e morte. Un simbolo che non è mai cambiato e che permane ancora oggi, a testimonianza del percorso di coerenza intellettuale scelto da Adelphi.

Calasso e i suoi collaboratori lavorano senza sosta per progettare un piano editoriale che sia in linea con le intenzioni dei suoi promotori. La collana di esordio è quella dei Classici (1963), caratterizzata da un accurato apparato critico e da una meticolosa cura redazionale. Stesso trattamento per i Saggi (dal 1964) e, soprattutto, per la Biblioteca Adelphi (dal 1965) che diverrà un autentico marchio di fabbrica.

Con la spinta di Calasso, di Foà e di Bazlen vengono pubblicati autori eterogenei, ma anche poco frequentati in Italia: Artaud, Ignazio di Loyola, Wittgenstein, Tolkien, Keller, Richler, Sacks, Nemirovsky, Carrère e altri ancora. Sempre di Calasso l’intuizione di credere nell’ambizioso progetto di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, ovvero l’edizione critica e la traduzione dell’opera omnia di Nietzsche.

Senza contare la pubblicazione di capolavori quali il Dedalus di Joyce, il Moby Dick di Melville nella traduzione di Cesare Pavese e i Racconti di Kafka, scrittore verso il quale Calasso nutre una particolare simpatia, al punto che nel 2002 gli dedica l’opera K. O ancora Milan Kundera (sintomatico il successo nel 1985 dell’Insostenibile leggerezza dell’essere) e Georges Simenon che Adelphi emancipa dal ruolo di scrittore esclusivamente di gialli. La produzione italiana contemporanea invece viene quasi del tutto ignorata.

Nella sua Storia dell’Editoria letteraria in Italia, Ferretti ha notato che Calasso vive «il suo ruolo multiplo di intellettuale-autore-editore senza conflittualità. Conseguentemente la casa editrice Adelphi mantiene un’impostazione di prezioso artigianato. […] In particolare Calasso sviluppa un’editoria come forma d’arte: ogni singolo libro pubblicato è come un personaggio all’interno di un’unica casa-romanzo», dove tutti i libri pubblicati sono come anelli di un’unica catena.

L’Adelphi di Calasso, per sua stessa dichiarazione, è opposta a Einaudi. Se in quest’ultima c’è fiducia nella storia e nella progettualità, nella prima no. L’esperienza letteraria è assoluta, cioè scevra di quell’impegno sociale che si osserva nelle collane di altre case editrici, in altre parole è prettamente individuale. In molti hanno criticato la direzione imposta da Calasso, il suo snobismo e la sua esclusività, tuttavia l’intento è stato proprio quello di creare una relazione intima tra autore e lettore, privilegiando l’atto del leggere come un rito sacro, solitario e meditativo, senza alcuna sovrastruttura che non fosse quella voluta dall’editore.

Questo modus operandi si riflette anche nel Calasso autore. A partire dal 1983 con La rovina di Kasch, fino al 2020 con La tavoletta dei destini, egli pubblica una serie di undici saggi narrativi molto eterogenei tra loro: si va dall’analisi dei miti greci a quelli indiani e buddhisti, da Kafka a Tiepolo fino a Baudelaire.

Uno dei più riusciti è Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), un lungo racconto sui miti della Grecia antica: Zeus, Apollo, Dioniso, Era, Arianna, Teseo, Demetra, Giasone, Eracle, Persefone, Erittonio e via dicendo. Calasso attinge a piene mani dalla letteratura, ma evita la didascalia, privilegiando una versione allegorica e personale del contesto preso in esame.

Calasso fa scendere gli dei dall’Olimpo e li denuda di fronte a chi li adora, rendendoli umani, forse troppo umani. Scrive ad esempio che «da secoli si parla dei miti greci come se fossero qualcosa da ritrovare, da risvegliare. In verità sono quelle favole che aspettano ancora di risvegliarci ed essere viste, come un albero davanti a un occhio che si riapre».

È con La follia che viene dalle ninfe (2005) che questo aspetto della poetica di Calasso, la volontà di istruire l’uomo contemporaneo attraverso la conoscenza dell’antico, salta fuori con maggiore intensità. L’autore, partendo dal concetto di possessione, attinge dalle narrazioni greche e le modernizza, citando autori a noi più vicini come Warburg, Nabokov, Chatwin, Kafka, il cinema di Hitchcock, la musica di Cage. Dimostra che la follia delle ninfe è un archetipo: resta tale nella linea temporale della storia ed è per questo motivo che sarebbe meglio definirlo inattuale, piuttosto che attuale, come avrebbe detto Nietzsche.

Quel libro si conclude con un capitolo, il cui titolo è significativo: L’editoria come genere letterario. Alla domanda «perché un editore rifiuta un certo libro?», Calasso risponde in modo inequivocabile: «perché si rende conto che pubblicarlo sarebbe come introdurre un personaggio sbagliato in un romanzo».

Ed è possibile concepire l’editoria senza le condizioni essenziali di denaro e mercato? Per Calasso la risposta è sì, come fece a Mosca Michail Osorgin nella Libreria degli Scrittori che radunava il catalogo completo di tutti i libri in circolazione. L’utopia di un uomo, Calasso, che ai libri ha dedicato una vita intera, consapevole del fatto che con essi le storie viaggiano e «non vivono mai solitarie: sono rami di una famiglia, che occorre risalire all’indietro e in avanti».

Massimiliano Muraro

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