La Presentazione di Gesù al Tempio: l’opera di Gaudenzio che ha portato il Rinascimento in Piemonte

Gaudenzio Ferrari, Presentazione di Gesù al Tempio e l'annuncio a san Gioacchino e a sant'Anna, affresco staccato, 1507, già nella cappella Scarognino in Santa Maria delle Grazie, ora Palazzo dei Musei, Varallo (fonte pagina FB Palazzo dei Musei)

Palazzo dei Musei a Varallo si accinge ad accogliere per un anno l’affresco di Gaudenzio Ferrari raffigurante la Presentazione di Gesù al Tempio e l’Annuncio a san Gioacchino e a sant’Anna (1507), proveniente dalla cappella Scarognino in Santa Maria delle Grazie. Nel biennio 2017-2018 l’opera è stata oggetto di un accurato restauro finanziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Al termine della campagna era stato dato alle stampe un volume dal titolo Un restauro per Gaudenzio Ferrari, edito da Scalpendi e curato da Massimiliano Caldera.

L’affresco fu staccato dalla parete negli anni ’60 del Novecento, da Severino Borotti per ragioni di conservazione. Il suo ripristino si deve alla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Biella, Novara, Verbano-Cusio-Ossola e Vercelli, al contributo finanziario dei Lions Club Valsesia, Novara e Vercelli, e al sostegno del Comune di Varallo.

In attesa di poterlo ammirare nella sua nuova sede, dove sarà esposto per tutto il 2021, crediamo sia doveroso spendere qualche parola in più su questo dipinto, il primo realizzato da Gaudenzio di ritorno dal viaggio a Roma e nell’Italia centrale. Allora infatti era consuetudine per gli artisti recarsi nell’Urbe per studiare da vicino i lavori dei grandi maestri come Raffaello e Michelangelo, nonché le testimonianze di Roma antica. Un passaggio quasi obbligato per completare l’apprendistato.

Ebbene, Gaudenzio tornò profondamente rigenerato da quell’esperienza, condivisa con altri colleghi tra i quali, pare, Eusebio Ferrari e il Bramantino, sebbene non ci siano prove sicure, se non, per quel che riguarda Eusebio, una firma graffita all’interno della Domus Aurea. Innanzitutto il nostro mutò in maniera piuttosto evidente il suo linguaggio pittorico, abbandonando l’amore giovanile per i lombardi (comunque sempre presenti nella sua poetica), che fu sostituito dalla nuova passione per le composizioni e per lo stile del Perugino e in generale degli artisti attivi nell’Italia centrale.

Altro aspetto da tenere in considerazione è il fatto che Gaudenzio introdusse nella pittura settentrionale un elemento che, se non era proprio totalmente sconosciuto, quantomeno era utilizzato molto di rado: la grottesca. Si diffuse a Roma a partire dalla fine del XV secolo, quando fu scoperta la Domus Aurea, la faraonica villa fatta edificare da Nerone e poi sotterrata dai suoi successori, il cui interno si rivelò ricco di preziosi affreschi perfettamente conservati, documento inestimabile del gusto dell’epoca.

La grottesca, così chiamata perché trovata appunto in una grotta (la quasi sepolta Domus Aurea) è un elemento puramente decorativo che conserverà nel tempo carattere architettonico, soprattutto come spartizione di scene contigue in grandi cicli; la sua stesura monocroma allude alla consistenza della pietra o del marmo. Ebbe quasi subito fortuna e diffusione perché tutto sommato gradevole da vedersi (così non la pensava Vasari), ma ancora di più perché significava riannodare un legame ideale con la grande civiltà di Roma. A Vercelli si può osservare nella decorazione cinquecentesca di Casa Alciati e di Palazzo Centoris.

Negli affreschi della cappella di Santa Margherita (altro nome della cappella Scarognino) a Varallo Gaudenzio mette in pratica tutto quanto appreso e visto a Roma. Fu voluta da Bernardino Caimi, il francescano al quale dobbiamo l’edificazione del primo nucleo del Sacro Monte. Possiamo definirla una sorta di palestra per la prova della maturità di qualche anno dopo: la parete con le Storie della vita di Cristo del 1513, sempre in Santa Maria delle Grazie a Varallo, un ciclo gaudenziano che merita un capitolo a parte, così come quello di San Cristoforo a Vercelli.

Nelle figure della Presentazione, così come in quelle più deteriorate dell’Annuncio, Gaudenzio, pur tradendo un passato lombardo (vedi il volto di san Giuseppe o quello del personaggio sullo sfondo a sinistra), offre più libertà al suo disegno e alla distribuzione dei colori. L’influenza di Perugino è tangibile nella figura al centro della scena che ricorda, nell’incarnato, nella postura e nell’acconciatura il san Sebastiano della tavola di San Giovanni Battista e quattro santi, conservata alla Galleria Nazionale dell’Umbria. Nella cappella inoltre non manca un uso sapiente delle grottesche, importate – come abbiamo visto – da Roma.

A Gaudenzio Ferrari sono state dedicate due importanti mostre e in entrambe sono stati presi in esame gli esempi della cappella di Santa Margherita: una nel 1956 al Museo Borgogna che ebbe tra i suoi curatori Giovanni Testori, il cui saggio fece da viatico per Il gran teatro montano, pubblicato nel 1965; la seconda, più recente, è stata Il Rinascimento di Gaudenzio Ferrari, svoltasi a Varallo, Vercelli e Novara con la curatela di Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Giovanni Romano.

Gaudenzio Ferrari è stato un artista complesso, fecondo e influente. A lui va dato il merito di aver fatto compiere alla pittura piemontese un balzo decisivo verso il nuovo corso, dotandola di linguaggio meno dialettale e più universale, svecchiandola ed emancipandola dal suo provincialismo una volta per tutte. L’arte che verrà dopo gli sarà sempre debitrice e i suoi epigoni, pur sviluppando un idioma autonomo, dovranno per necessità di cose fare i conti con lui.

Come saggiamente scriveva Anna Maria Brizio: «Per Gaudenzio la pittura è immagine, narrazione, rappresentazione; tutto volto all’esterno, egli offre all’adorazione del riguardante dolci Madonne, gli rappresenta fatti e scene sacre, a sua edificazione e commozione, con facilità corsiva e spontanea prontezza. […] Gaudenzio rimane legato alla tradizione del mestiere, dell’artigianato, e può anche avere una cultura aggiornata e vivace, anche d’essa di varrà come d’un più perfezionato strumento; e può essere genialmente innovatore, ma sempre in vivo rapporto col fare: un fare che implica anche un contatto con l’ambiente in cui e per cui lavora, una partecipazione, un’apertura sentimentale verso il pubblico cui si rivolge.»

Massimiliano Muraro

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