Se da via Verdi si svolta in via Feliciano di Gattinara, direzione via Duomo, dopo circa cinquanta metri sulla destra appare la facciata di una costruzione disallineata rispetto alle altre case. Pur non essendo effettivamente tale, ci si mostra fin troppo grande rispetto alla stretta strada che la ospita, tanto che è necessario fare qualche passo indietro per godersela tutta.
È questa la chiesa della Veneranda Confraternita di Santa Caterina. Sfuggente, pare quasi si voglia nascondere agli sguardi dei passanti spesso distratti o persi nei loro pensieri quotidiani. Costituisce invece un premio per i curiosi che, vuoi per caso, vuoi per volontà, spingono il naso e si allontanano un istante dai propri passi per andare a conoscerla di persona.
Ebbene costoro non rimarranno certo delusi, specie se avranno la fortuna di trovarla aperta sì da godere anche della parte interna e non solo della facciata e dei muri. C’è da sapere che la Confraternita di Santa Caterina è una delle più antiche, se non la più antica, di Vercelli. Riccardo Orsenigo, nel suo censimento poi confluito nel fondamentale libro Vercelli Sacra del 1909, ci racconta che fu fondata il 20 giugno 1361 col nome di Santa Maria della Misericordia, grazie al lascito di tale Antonio Bauzolio.
Nel 1486 la duchessa Bianca Maria di Savoia «procurò a questi disciplini, come più appropriato, l’oratorio di San Giovanni Battista. Rifabbricato più tardi l’oratorio fu dedicato a Santa Caterina, continuandosi però a celebrare la festa in onore di San Giovanni Battista. La confraternita prese quindi il nome di Santa Caterina» e divenne in definitiva tale dopo il 1539.
I confratelli, che Cusano descrive nel loro «abito di tela bianca qualmente di pallor di morte», avevano regole molto severe. Una su tutte: chi non si presentava agli appelli o peggio non seguiva la disciplina doveva flagellarsi da solo fino al Duomo. Non facciamo fatica a immaginare il candido vestito cui si riferiva il Cusano macchiato di sangue in seguito a questa truce usanza, peraltro molto in voga a quei tempi tra i fedeli.
Per fortuna le severe norme della confraternita confluivano e si concretizzavano anche nell’aiuto ai più bisognosi e non soltanto nel martirio delle carni. Oltre ad avere istituito l’ospedale che forniva ospitalità ai pellegrini e ai viandanti, in seguito all’intervento della duchessa di Savoia, l’istituzione ecclesiastica cominciò a dedicarsi ad aiutare e confortare i poveri e più avanti le ragazze che non avevano la possibilità di costituirsi la dote per il matrimonio. Cessò poi le sue attività benefiche nel XVII secolo.
La chiesa, come la vediamo oggi, risale al 1744, anno in cui fu «rinnovata, variato l’impianto, da ponente a levante». Otto anni prima, cioè nel 1736, la confraternita fu una delle prime a dotarsi di una scultura lignea policroma, altrimenti detta e nota ai vercellesi come macchina, che i confratelli avrebbero poi portato in spalla nella processione del Giovedì Santo (solo più tardi il rito si sposterà al Venerdì, giorno in cui permane ancora adesso): si tratta del Cristo nell’Orto, attualmente conservato nell’oratorio che si trova subito alla destra della porta di ingresso dell’edificio.
Scrivono Ordine e Pomati che a questa statua, di artista per ora ignoto, «veniva attribuito un potere quasi taumaturgico: dal 1856, infatti si prese l’abitudine di portarla gratuitamente presso ogni infermo della città che lo richiedesse. Pare inoltre che questo gruppo statuario sia il più pesante e che alcuni vercellesi in passato scegliessero apposta di portarlo in processione per voto».
Le vicende di Santa Caterina sono soprattutto legate al suo ricco apparato decorativo che non ci appare più come era in origine, poiché è stato in buona parte smantellato. A partire dall’oratorio che conteneva un pregevole ciclo di affreschi con scene della vita di Cristo, realizzato dalla sapiente mano di Bernardino Lanino. Qualche traccia si può ancora osservare in loco, ma la maggior parte è stata staccata ed è ora conservata al Museo Borgogna.
Appartengono alla prima fase del Lanino, quella tanto per intenderci della Pala Ternengo (oggi alla Galleria Sabauda), che testimonia il progressivo distacco dell’artista dall’influenza di Gaudenzio Ferrari e il principio di una poetica personale, mitigata dall’interesse per Leonardo e Bramantino, che comincia già a profumare di Maniera e, per certi versi, anticipa di qualche decennio i primi echi del Seicento. Aspetto che hanno analizzato con puntualità gli studi di Romano, Astrua e Quazza, giacché in passato la produzione giovanile di Lanino era spesso confusa con quella di Gaudenzio maturo.
Ma il Lanino non è certo l’unico artista ad avere operato in Santa Caterina. Ad esempio all’esterno troviamo altri due affreschi degni di attenzione. Il primo, invero piuttosto deteriorato e sbiadito, è proprio sopra la porta d’ingresso: lì il Moncalvo (o comunque qualcuno della sua cerchia) ha fissato la Decapitazione della Santa. Il passaggio di Guglielmo Caccia (questo il suo vero nome) a Vercelli fu fulmineo ma intenso. Come era inevitabile, assimilò anch’egli le opere di Gaudenzio e le interpretò. In città, oltre a quella appena menzionata, lasciò altre tracce, come il Cristo inchiodato sulla croce in San Bernardino e Gli dei e le muse in Parnaso di Palazzo Tizzoni-Mariani. Sottolineiamo che il soffio del Lanino e del Moncalvo si spinse fino alle zone limitrofe, come si può ben vedere a Costanzana, nell’altro oratorio dedicato a Santa Caterina.
Il secondo affresco è in una posizione quantomeno bizzarra, sulla parete esterna di sinistra, esposta in via Feliciano di Gattinara. Lo scorgiamo in alto, tanto che si fa una certa fatica a vederlo, disturbati dal riverbero della luce che si riflette sul plexiglas messo lì a proteggerlo. È la Flagellazione di Cristo, attribuita con incertezza alla bottega dello Spanzotti o a quella di Aimo Volpi e datata tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, dunque precedente ai dipinti del Lanino.
Non si conosce il motivo della collocazione insolita dell’opera, restaurata nel 2015. Il professor Mario Guilla ha avanzato l’ipotesi che sia stata commissionata come segno di gratitudine da parte dei fedeli per essere stati liberati da qualche tipo di male e perciò doveva essere ben visibile al passaggio. Osservando le ferite sul corpo di Cristo si «potrebbe anche alludere alla manifestazione di un morbo e, quindi, assumere il significato di ex voto per l’esito favorevole di una malattia, oltre ad avere la funzione devozionale e di condivisione nei confronti della sofferenza di Cristo».
Se l’esterno della chiesa è quasi austero, ben altra impressione suscita l’interno, un ambiente a una navata unica con possenti colonne di marmo da cui scaturiscono le volte a botte. L’opulenza viene accentuata dall’intervento di Pier Francesco Guala che nel suo soggiorno vercellese fece fortuna ricevendo molte committenze dalle Confraternite. L’artista casalese nel 1744 dipinse sulla volta l’estasi di Santa Caterina e altre figure di santi, rappresentate come statue in nicchia. Sempre del Guala troviamo due imponenti pale d’altare sulle pareti laterali: la Predicazione del Battista e la Consegna delle Chiavi, quest’ultima restaurata nel 1999 e segnata da cromatismo e teatralità tipici del secolo.
Infine, come ci segnalano puntualmente Ordine e Pomati, «la chiesa conserva uno degli organi dei fratelli Serazzi, che dal 1865 dovettero accompagnare la Scuola di Canto della confraternita che si esibiva esclusivamente a scopo sacro. Non mancarono i lavori di altri artisti ed abili artigiani locali, tra cui Giovanni Martino Sezzano, che nel 1746 scolpì un Crocifisso ligneo». Tutto questo e anche altro è Santa Caterina che si cela agli occhi indiscreti, ma se interrogata con le giuste parole, sa ricambiare con magnifici regali.
Massimiliano Muraro
Bibliografia:
R. Orsenigo, Vercelli Sacra, 1909 (poi 1995, Eos)
Pittura murale in Italia, Il Cinquecento, 1997
M. Guilla, Espressioni della pietà popolare in Vercelli, 2000
C. Ordine, P. e P. Pomati, La settimana santa a Vercelli, 2006
Storia di Vercelli in età moderna e contemporanea, 2011