Prima di cominciare a parlare dell’ultimo libro di Giacomo Pellizzari è necessaria una premessa. Diversamente da altre volte infatti sarò costretto a usare la prima persona, tradendo la regola che vuole il cronista imparziale e distante dai fatti. Il motivo di tutto ciò è semplice: di Tornanti e altri incantesimi, in libreria da giovedì 22 aprile per i tipi di Enrico Damiani Editore, io sono uno dei due protagonisti, assieme ovviamente a Giacomo.
Pellizzari, già autore de Il carattere del ciclista e di Generazione Peter Sagan, racconta il viaggio in bicicletta che abbiamo compiuto il 28 e il 29 luglio scorsi alla conquista dei 7 Majeurs, i 7 colossi delle Alpi Occidentali, tutti sopra i 2.000 metri di altitudine: Fauniera (2481m), Lombarde (2350 m), Bonette (2715 m), Vars (2108 m), Izoard (2360 m), Agnel (2744 m), Sampeyre (2284 m).
Un giro folle di 370 km, ma soprattutto di 10.600 metri di dislivello, che, se compiuto entro le 48 ore garantisce il diritto di entrare a far parte della Confrérie des 7 Majeurs («una sorta di ordine esoterico, a metà strada tra setta religiosa e cavalieri Jedi») con il titolo di Maître. Per dovere di cronaca bisogna segnalare che chi lo porta a termine in meno di 24 ore diventa Grand Maître, ma qui entriamo già in una fase di agonismo spinto che a noi poco importava. Eravamo più propensi a scandagliare la dimensione del viaggio, intrapreso con la lentezza, con la curiosità del flâneur. Solo che invece di camminare, come faceva ad esempio Walter Benjamin a Parigi, abbiamo deciso di pedalare. E se i paesaggi del filosofo tedesco erano i boulevard e i passages della Ville Lumière, per noi due sono stati i tornanti, le cime, i prati che abbiamo via via incontrato nel nostro girovagare.
Ho letto il libro in due giorni, dividendolo esattamente allo stesso modo in cui noi abbiamo compiuto il nostro giro: primo giorno Fauniera, Lombarda, Bonette e Vars, secondo giorno Izoard, Agnello e Sampeyre. Devo dire grazie a Giacomo perché ho rivissuto ogni momento di quella esperienza, anzi, se devo dire la verità, anche qualcosa in più. Ciò che non ci eravamo detti durante, perché troppo presi a centellinare ogni energia del nostro corpo, tutto teso al risparmio di movimenti e anche di pensieri. Chi va in bicicletta, soprattutto chi ama la salita sa bene di cosa parlo: non c’è spazio per il superfluo, tutto deve essere funzionale allo scopo che si traduce nel pieno raggiungimento dell’obiettivo.
Quindi ecco uno dopo l’altro i nostri colli: il Fauniera è la scoperta di un paesaggio mai visto prima, l’inizio del viaggio, le marmotte, l’arancio dell’alba che si riverbera sulle pietre; la Lombarda è il confine, solo fisico come lo sarà l’Agnello, tra Italia e Francia; la Bonette è la vetta più alta da dove abbiamo il privilegio di toccare il cielo, accompagnati dal volo maestoso dell’aquila reale; il Vars è la fatica, la paura di non farcela, l’eco della Cuneo-Pinerolo di Fausto Coppi, la picchiata prima del meritato risposo a Guillestre.
L’Izoard è la Casse Déserte, un angolo di luna posto a oltre 2.000 metri, è ancora Coppi, questa volta non solo al comando, ma insieme all’amico-rivale Bobet; il Colle dell’Agnello è l’eco di ciò che rimane della Repubblica degli Escartons, un felice esperimento sociale di settecento anni fa che ci dimostra quanto i pregiudizi siano radicate frivolezze: il Medioevo non vuole per forza dire secoli bui e i montanari sono tutt’altro che gente chiusa; il Sampeyre infine è una magia che fluttua su un mare di nuvole.
Dicevo che Giacomo di questi 7 Majeurs ha detto praticamente tutto, appoggiandosi a quelli che sono i suoi punti di riferimento letterari, artistici e musicali. Se qualcuno dovesse chiedermi a quale genere appartenga Tornanti e altri incantesimi, confesso che non avrei la risposta pronta. È un romanzo? È un taccuino di viaggio? È un diario? È un racconto formativo? Pedagogico forse? Riflettendoci un po’ risponderei che è una storia. Una bella storia di due amici, che contiene tutti gli elementi che ho poc’anzi menzionato.
Io e Giacomo proveniamo entrambi dalla pianura. Lui che è di Milano, quella più internazionale, io, di Vercelli, quella più vernacolare. Il vercellese pascola da secoli nelle risaie, ma pare sempre in attesa di un’altura. Appena mette il naso a nord la prima cosa che vede è l’arco alpino: in particolare il massiccio del Monte Rosa, la seconda cima più alta d’Europa. Succede anche a Milano, ma lì ci sono i grattacieli che celano la campagna, è una questione diversa.
In comune abbiamo una passione e una certezza. La passione chiaramente è la bicicletta, soprattuto quando svolta per strade che salgono. Non credo sia un caso che ci siamo conosciuti proprio prima di affrontare una salita, quella del Nivolet, sempre un over 2.000. La certezza è che qualsiasi esperienza diventa veramente nostra non durante il suo svolgimento, ma dopo essere stata coccolata dal tempo. Mai come nei 7 Majeurs ho percepito sulla mia pelle cosa volesse dire Marcel Proust nella Recherche. Ho realizzato e sto continuando a realizzare ciò che ho fatto non subito dopo avere staccato lo scarpino dal pedale a Stroppo (Val Maria, punto di partenza e arrivo del nostro anello), ma a mesi di distanza. Se per lo scrittore francese il suo mondo è partito da una madeleine, il mio da un colpo di pedale. Sono convinto che anche per Giacomo sia stato così.
Difficile aggiungere qualcosa in più di quello che ha raccontato Giacomo. Potrei dire che il camoscio che si vede sulla copertina del libro, bene illustrata da Matilde Tacchini, mi ha ricordato la cima della Lombarda, solo che là c’era uno stambecco, metallico e maestoso. Era una scultura, solo che più mi avvicinavo e più sembrava allontanarsi. Che sulla Bonette mai dimenticherò il bar nascosto in una specie di villaggio fantasma, con le due Orangina tracannate in un amen, che mi hanno salvato la vita. Che giù dall’Izoard mi sono commosso quando un contadino di Arvieux, dopo averci scambiato qualche chiacchiera, ci ha augurato Bonne route!, due parole schiette che mi rimarranno per sempre impresse nel cuore.
Abbiamo parlato di salite, di tornanti, di discese, di montagne, perciò credo sia doveroso chiudere con la nostra fedele compagna di mille avventure: la bicicletta. Ho letto diverse definizioni, ma trovo che la più significativa sia quella di Giacomo in Tornanti e altri incantesimi. Talmente bella che vorrei riportarla per intero.
«È un mezzo aperto, comunicante con l’esterno: non ha tettuccio, non ha pavimento, non ha portiere, non c’è abitacolo. Nulla si frappone tra te e l’esterno. […] Non ci sono ostacoli, filtri tra il ciclista e l’ambiente che lo circonda. In bici si ha l’occasione, più unica che rara, di percepire ogni minimo dettaglio di ciò che ti circonda. Ascolti ogni suono, avverti ogni odore, non ti perdi nemmeno uno di quegli impercettibili cambi di temperatura tra zone d’ombra e quelle battute dal sole. […] Se pedali nel posto giusto, al momento giusto, è come se tu, in quel momento, ci entrassi proprio. Lo buchi, ne diventi parte integrante. Nessun altro mezzo di trasporto lo consente.»
Massimiliano Muraro





