DIVERGENZE – Il caso Tortora dopo 40 anni diventi materia di aggiornamento professionale dei giornalisti

Enzo Tortora con le figlie Silvia (a sinistra) e Gaia

Dello sconvolgente caso-Tortora (riproposto adesso nel libro della figlia Gaia “Testa alta, e avanti”) io conservo un ricordo assai doloroso perché riguarda il giornale su cui ho scritto per trentadue anni, “La Stampa”.

Come tutti i giornali italiani, sabato 18 giugno 1983, anche “La Stampa” diede enorme risalto all’arresto del notissimo conduttore televisivo, avvenuto il giorno prima, con fotografi e cameramen che lo ripresero da tutte le angolazioni, manette ai polsi, mentre egli veniva portato dal suo albergo di Roma alla caserma dei carabinieri di via In Selci. L’accusa, pesantissima, dei pm napoletani che conducevano l’inchiesta era: associazione per delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di droga e armi.

Ciò che mi colpì di quella prima pagina, titolo scontato a parte (non si parlava d’altro in Italia fin dal giorno precedente) fu la vignetta davvero crudele di Giorgio Forattini, che in quegli anni commentava su “La Stampa”, con arguta ironia (nella fattispecie sadica, più che arguta) i fatti di cronaca. Forattini aveva disegnato un pappagallo che invece di dire “Portobello”, gracchiava: “Porto Longone”, il famoso carcere dell’Isola d’Elba. E anche se, in effetti, Tortora sarebbe poi stato rinchiuso a Regina Coeli, il più famoso vignettista italiano sfruttò quell’elemento “Porto…” (che legava la popolarissima trasmissione di Tortora e la casa penitenziaria) per assestare un duro colpo ad EnzoTortora. Che, giova ricordarlo, a quel momento era un “sospettato” (non un condannato) che avrebbe dovuto essere tutelato dalla presunzione di innocenza.

Ho citato questo ricordo personale, perché non ho mai dimenticato quella vignetta e mi sono spesso domandato se Forattini, almeno dopo la sentenza di assoluzione definitiva della Cassazione (13 giugno 1987), si sia mai scusato con Tortora. La figlia Gaia, che all’epoca dei fatti aveva 14 anni, e che nel libro parla di altri (non troppi per la verità) che si scusarono, ad esempio il giornalista Paolo Gambescia (“Si è trattato del più grosso errore della mia carriera”), non cita il disegnatore romano.

Gaia Tortora, oggi

Nel suo nuovo libro, la giornalista de “La 7”, apprezzata per la sua solida professionalità nel condurre il talk show quotidiano “Omnibus”, non perdona i magistrati inquirenti che arrestarono il padre nella maxi operazione che la stampa italiana battezzò, forse un po’ enfaticamente “il venerdì nero della camorra”, e che lo fecero condannare in primo grado a dieci anni di carcere; non perdona il pentito Gianni Melluso che, nel 2019, uscito dal carcere, dopo trent’anni di reclusione, confessò di essersi inventato tutte le accuse, trascinando, a caduta, altri dieci pentiti nell’infamante operazione anti-Tortora (ovviamente Gaia Tortora non perdona anche loro), in cui un giorno sì un giorno no, spuntavano accuse inverosimili. 

Ma, soprattutto, Gaia Tortora non perdona noi giornalisti, colpevoli di aver accettato, come oro colato, le tesi degli inquirenti senza essere neppure sfiorati dall’ombra del dubbio.

Fecero eccezione, immediatamente, Piero Angela (l’amico che si precipitò subito a casa Tortora per stare vicino alla moglie e alle figlie Silvia e Gaia), Massimo Fini (che allora scriveva per “Il giorno”), Enzo Biagi  e Leonardo Sciascia. Furono loro a sollevare finalmente quel principio del dubbio (“E se Tortora fosse innocente?”) che dovrebbe essere sempre considerato dal vero giornalismo.

Successivamente, si aggiunsero Indro Montaneli, Giorgio Bocca e altri giornalisti che fecero semplicemente il loro mestiere, non limitandosi ad andare a registrare, da meri stenografi, le novità investigative fornite dagli inquirenti. Gaia Tortora cita il caso clamoroso di Vittorio Feltri che, inviato a Napoli, fece due cose che, incredibilmente, non erano state fatte da nessun altro. Prima cosa: compose il numero di telefono che agli atti processuali figurava come un recapito di Tortora, e gli rispose uno sconosciuto mandandolo al diavolo; seconda: verificò, negli archivi del Corriere della Sera, la data della presunta consegna della droga a Tortora da parte di Melluso  (“Gliela diedi in una scatola di scarpe”): ebbene, quel giorno, il famoso pentito da cui era partito tutto, era rinchiuso nel carcere di Campobasso. 

Osserva Gaia Tortora nel suo libro: “Il dubbio è salutare. E’ occasione di apprendimento, di crescita, di scoperta. In certi casi può anche essere ciò che salva una persona (e la sua famiglia) dalla gogna mediatica o, magari, da mesi di carcere ingiustificato”.

Tortora fu salvato e aiutato, in quegli anni terribili, oltre che dalla moglie  e dalle figlie e ovviamente dagli avvocati, da un piccolo, ma autorevolissimo gruppo, di giornalisti e intellettuali che ebbero il coraggio di andare controcorrente, e soprattutto dal Partito radicale che, nel poco tempo che gli è rimasto da vivere, egli ha poi sempre appoggiato nelle sue battaglie, a tutela di coloro “che non hanno voce per protestare contro le ingiustizie”.

Sono passati quarant’anni, da quel venerdì delle manette, e visto che pochi, pochissimi giornalisti hanno chiesto scusa se non a Tortora personalmente, almeno alla famiglia, una buona possibilità di farlo, finalmente, da parte della nostra categoria sarebbe quella di organizzare uno o più corsi di aggiornamento professionale – quelli che ogni anno indice il nostro Ordine – dedicandoli al caso-Tortora; proprio per educare i giornalisti a quel “principio del dubbio” indispensabile ogni qual volta si pubblica ciò che viene ritenuta una verità apodittica. “Educazione” indispensabile, visto che non abbiamo perso il vizietto (anzi con l’avvento di Facebook e degli agognati clic, si è accentuato) di spettacolarizzare le inchieste giudiziarie senza aspettarne gli esiti processuali.

Io penso che un ordine professionale, ad esempio quello del Piemone, non avrebbe nessuna difficoltà a chiedere a Gaia Tortora di intervenire, una volta libera dai suoi impegni professionali a “La 7”. Il caso-Tortora ha tanto da insegnare a noi giornalisti anziani e soprattutto ai più giovani. E trattarlo sarebbe finalmente un minimo risarcimento alla memoria di “un uomo per bene” massacrato senza pudore dalla nostra categoria.

                                                                       Enrico De Maria

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2 Commenti

  1. Quando è stato arrestato ( o “arrestato”) Messina Denaro (il latitante più ricercato da 20 anni e condannato per gravissimi crimini, in via definitiva) gli si è evitato di esser ammanettato e tantomeno ritratto nei media con le manette .. mentre in quello stesso giorno altri le recavano con la ostentata attenzione dei fotografi . Donald Trump è inquisito da un “giudice” che sta dove si trova perché eletto (non nominato) con l’aiuto pecuniario di George Soros. Molti ritengono che non sussistano i presupposti per una indagine, tanto meno con il clamore che la circonda su TV e giornali,m Usa, .. forse lo scopo finale è quello di impegnare per mesi e mesi (in vista delle elezioni) i media e quindi i cittadini a farsi un’idea .. più sbagliata possibile. Ideale sarebbe mostrarlo scortato da poliziotti .. meglio se uno bianco e uno di colore, o hispanico. Poi la questione si sgonfia (al pari di quella del 6 gennaio al Campidoglio) e dopo ne inventeranno un’altra. Vogliamo continuare a “garantire” i giudici che “sbagliano” .. come quelli che non perseguono i crimini di certi politici o di scienziati che commettono colossali errori “scientifici”!?
    Riportare il caso Tortora all’attenzione di tutti potrebbe portarci ad estendere entusiasticamente il garantismo ai criminali e non alle persone per bene. Come è sempre accaduto Certo che ricordare il caso Tortora può costituire un momento di presa di coscienza di alcuni giornalisti troppo superficiali e .. il fatto è che se prendono “troppo” coscienza rischiano d’esser licenziati dal “datore di lavoro” !?

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