Uno, nessuno, quarantamila

 

Sabato in piazza, a Torino, io c’ero. E ho lasciato passare un po’ di tempo prima di scriverne, per raccogliere le idee e farle decantare, come un buon vino, facendo sì che risaltassero le emozioni  donatemi da quella mattinata.

 

Dunque ero lì, uno tra quarantamila, ad ammirare un città che ha deciso, un sabato di novembre, di dimostrare ancora una volta quale sia il vero significato di essere “bögianen”. Non l’epiteto bonario e un po’ irridente, che descrive il pigro, conservatore, torinese. Ma la risoluta e allo stesso tempo educata essenza di chi ha le montagne nel cuore, quella forza indomabile e arcigna che, nella storia, i piemontesi hanno dimostrato a più riprese.

 

Sabato davanti a Palazzo Madama, assieme al più caro dei miei amici, ho ammirato la compostezza che solo chi è di Torino sa apprezzare. C’erano donne, uomini, famiglie, anziani e anche giovani, anche se forse non erano tantissimi. C’erano amici che si rincontravano “ma t‘ses sì, d’co ti?” e si stringevano braccia e mani, con aria complice. C’erano signore distinte, le madamine, e signori con il loden e il cappello. C’erano piemontesi veri, da tutta la regione, da Vercelli, Cuneo, Asti. Tutti con gli occhi grandi a osservare e capire che alla fine, la schiena dritta la sappiamo ancora tenere. Sabato in piazza c’erano dei sognatori che, anche se molti con i capelli grigi, sanno ancora credere al futuro, e di essi mi sono innamorato.

 

Vede cara Sindaca di Torino, la singolarità e forza della manifestazione di sabato non sta tanto nel dire “Sì Tav”, che pare davvero una sciocchezza vada ribadito ancora, giacché una tale opera non è discutibile in quanto a utilità e opportunità, con buona pace dei suoi consiglieri stellari di maggioranza, dei pentastellati e del popolo antagonista delle Valli, gente che dichiara senza neanche una parvenza di vergogna che si tratta di un’opera inutile perché “tra 20 anni forse ci sposteremo tutti con i droni” (cit. Viviana Ferrero, Presidente commissione pari opportunità del Comune di Torino, su facebook). Sta nel fatto che quarantamila cittadini si sono trovati in piazza, anche coloro che in piazza forse non ci sono mai scesi, per dire sì al futuro, sì a tutte le occasioni che la vita e la storia di questa città e di questa regione meravigliosa ci potranno offrire. Insomma, una concezione agli antipodi di chi per principio si oppone, chiude e rifiuta, tanto cara ai teorici della decrescita felice. E questo gesto “futurista”, nel senso rivoluzionario del termine, lo hanno fatto nella città che più di tutte in Italia ha creduto, storicamente, nell’innovazione.

 

Vede, cara sindaca, lei non può sottovalutare i torinesi, i piemontesi, e ciò che sabato le hanno detto, parlando di energie positive e di vie aperte o da aprire. Perché quelle persone radunate in piazza sono i nipoti o pronipoti di chi nel 1871 ha completato il traforo ferroviario del Frejus, iniziato appena 14 anni prima: una vera follia avanguardista in un’era in cui ci si spostava con i cavalli. Basta che faccia un salto in piazza Statuto per ricordarselo.

Sono i nipoti e pronipoti di chi l’Italia l’ha fatta davvero, di chi è stato una spina nel fianco della Francia, da sempre, e piuttosto di farsi sottomettere ha scavato gallerie e tunnel, arrivando al gesto estremo, come le potrebbe ricordare il sempre troppo sottovalutato Museo Pietro Micca. Sono i discendenti di chi ha visto nel Po una risorsa e non solo un corso d’acqua da cui difendersi per le violenze delle piene, e ha dissodato la terra e scavato canali per rendere la pianura un patrimonio agricolo da cui l’interna Nazione ha attinto negli anni. E si potrebbe proseguire per ore raccontado ciò che significa futuro per Torino, giacché tutti sanno come la Mole abbia illuminato il resto della nostra Nazione, dalle auto alla tv, dalla medicina allo spazio.

 

E poi, cara Sindaca, sabato la gente arancione di piazza Castello le ha mandato un ulteriore messaggio. In 40mila abbiamo calpestato le lastre in pietra della piazza più importate di Torino senza lasciare neanche l’ombra di una cartaccia in terra, nemmeno quella del retro degli adesivi arancioni che venivano distribuiti, senza un insulto, senza che qualcuno abbia avuto timore che la protesta travalicasse. Ma solo e sempre con scrosciati applausi. Una dimostrazione opposta e distante dagli eccessi di tutti gli antagonisti e antagonismi a cui purtroppo siamo stati abituati in questi anni, che a ogni manifestazione lasciano alle spalle una scia di danni da recuperare.

 

Allora, vede, cara Sindaca, se lo lasci dire, sabato è accaduto qualcosa di unico. E non basta quella sceneggiata della foto social che lei ha postato qualche ora dopo la manifestazione, con la porta del suo ufficio aperta alle sue spalle e il sorriso abbozzato, a contenere la forza degli applausi al futuro. La verità, cara sindaca, è che io, nei suoi panni, a fronte di una tale distanza di vedute e visione del futuro con la comunità che amministro, in queste ore avrei pensato intensamente a quella parolina tanto indigesta da pronunciare: “dimissioni”.

 

 

Però, cara Sindaca, che vuole che ne sappia io di onore e senso morale: nella mia condizione di sciacallo infame, iscritto all’ordine dei giornalisti, mi comporto come tutti i miei colleghi da pennivendolo puttana, come non ha mancato di rimarcare il vostro esimio vice presidente del Consiglio, assieme a uno dei punti di riferimento del suo triste orizzonte pentastellato.

Io infatti non sono nessuno, solo uno tra quarantamila.

 

 

 

Luca Avenati

 

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