Raccontare 1 – Rivera e Piola, quando Brera prendeva cantonate

LaPressesportcalcioDerby Inter-MilanNella foto: la stella del Milan Gianni Rivera in una foto non datata a Milano.

Inauguriamo oggi una nuova rubrica su TgVercelli, con racconti che pubblicheremo di tanto in tanto, su temi generali (e incominciamo con sport e giornalismo), ma sempre con un occhio puntato verso la nostra provincia.

 

“…Boninsegna insiste nella sua fuga, talché gli muore alle calcagna l’asfittico Schultz: aspettano tutti il traversone alto: Boninsegna effettua invece un passaggio basso a ritroso: su quel diagonale rovesciato si trova olimpicamente Rivera: Maier è spiazzato a destra, come consigliava la provenienza del gol: Rivera adegua la falcata all’impatto e con il piatto destro infila da poco oltre il limite!”.
Quante volte ho letto, esaltandomi, esattamente come la notte che vedi quello storico gol, il capitolo della “Storia critica del calcio italiano” che Gianni Brera dedica a Italia-Germania del giugno 1970. Quante volte ho letto il racconto della sfida tra Ungheria e Uruguay nel Mondiale svizzero del ‘54, e il 5 a 0 rifilato dall’Italia di Meazza all’Ungheria nel 1930. Li so praticamente a memoria perché adoro Brera, la sua capacità unica di scrivere di calcio, ma anche di ciclismo (“Coppi e il Diavolo” è uno dei migliori romanzi pubblicati in Italia nel Novecento), di pugilato e di tanto altro.
Una premessa indispensabile per dichiarare il mio pubblico amore per lo straordinario aedo del calcio italiano, aggiungendo però subito dopo che, su alcuni fatti e personaggi, il pur divino “Gioanbrerafucarlo” non mi ha mai convinto. Ed in particolar modo penso al suo assurdo ostracismo su Rivera e alle topiche che egli prendeva quando affrontava il tema che pure gli era particolarmente caro, del ruolo della terra di nascita, ergo della razza, nell’abilità calcistica. Per anni ho cercato di trangugiare l’incipit del ritratto che egli traccia, sempre nella sua “Storia” di Piola. Scrive infatti che “Piola nasce in Lomellina, punto di incontro di tre razze: liguri, certi, germano-lombardi”. Sciocchezza razziale a parte, Silvio Piola è nato a Robbio Lomellina per un puro caso: il padre era novarese, originario di Carpignano Sesia; la mamma, che di cognome faceva Cavanna, era vercellese. I coniugi Piola avevano aperto un negozio di stoffe a Robbio, e Silvio era nato lì, ma avrebbe potuto vedere la luce di qualunque altra parte. Tra l’altro, pochi anni dopo l’apertura del negozio e la nascita di Silvio, la famiglia si era subito trasferita a Vercelli per continuare l’attività non in un negozio, ma con un banchetto in piazza Cavour.
Il riferimento a Piola, mi torna utile per sviluppare, partendo da un’osservazione del più grande bomber del calcio italiano di tutti i tempi sul Gianni Rivera poco più che bambino. La storia racconta che il grande Silvio vide il Rivera quindicenne giocare in un torneo e disse: “A quindici anni io neppure mi sognavo di fare le cose che sa fare lui”.
Rivera esordì appunto quindicenne anche in serie A, nell’Alessandria, prima di passare al Milan, dove avrebbe giocato ininterrottamente per diciannove anni, di cui dodici da capitano, vincendo tre scudetti, quattro Coppe Italia, due Coppe dei Campioni, due Coppe delle Coppe e una Coppa intercontinentale. Secondo la graduatoria dei più grandi giocatori di tutti i tempi, stilata nel 2000 dalla IFFHS, l’International Federation of Football History & Statisytic, Rivera è il primo degli italiani, al ventesimo posto. E nel ‘69, egli fu sempre il primo calciatore italiano (non oriundo) a vincere il Pallone d’oro. Non solo: è stato l’unico centrocampista, dopo Valentino Mazzola (un quarto di secolo prima) ad aver vinto – ex aequo con Pulici e Savoldi – la classifica dei cannonieri, con diciassette gol. Eppure, ciononostante, Brera ha sempre scritto che Rivera era un “grande mezzo giocatore” e, sotto sotto, io penso che c’entrasse lui nei vergognosi sei minuti concessigli da Valcareggi nella finale di Mexico ‘70 con il Brasile. Quel giorno, come ricorda Federico Buffa in uno dei suoi magnifici racconti su Sky, il Brasile schierò “cinque numeri 10”, mentre l’Italia tenne fuori l’unico in grado di rivaleggiare, tecnicamente, con i vari Pelè, Gerson, Tostao, Rivelino, etc. Tutti sappiamo come andò a finire.

Ma la riprova del partito preso di Brera contro Rivera l’Italia intera la constatò, e clamorosamente, il 14 novembre del 1973 quando la Nazionale (in amichevole) andò ad espugnare per la prima volta nella sua storia lo stadio di Wembley: 1 a 0, con gol di Capello nel finale. Quella sera, milioni di italiani videro Rivera pennellare calcio nel tempio del football, al punto che, alla fine, Alf Ramsey (il ct inglese che sette anni prima aveva condotto la nazionale all’unico successo mondiale nella storia del calcio inglese) dichiarò: “I quattro migliori giocatori italiani? Rivera, Rivera, Rivera e ancora Rivera”.
Gionbrerafucarlo giudicò con uno striminzito 6 quella fantastica prestazione, per poi leggermente correggersi nella sua “Storia” del calcio, sostenendo di averli gli dato 6,5 e di essere stato, per questa ragione, aspramente criticato dai tifosi. Nessun 6,5: fu 6 con la motivazione che non aveva saputo servire adeguatamente le punte.
Niente, nonostante i pareri più che autorevoli (abbiamo visto da Piola a Ramsey, per passare da Pelè, Platini e tanti altri), per Brera, Gianni Rivera è sempre stato un “ grande mezzo giocatore”, al pari di Sandro Mazzola (che comunque egli preferiva): solo per inciso, anche Sandro Mazzola compare nella graduatoria della IFFHS, al 43° posto. Strano, che due mezzi giocatori siano giudicati tra i più grandi del XX secolo.
Strano, se non si considera, come invece fu, che il più geniale e seguito narratore di cose di calcio che sia mai esistito in Italia, di tanto in tanto (e su Rivera pervicacemente), prendeva cantonate.

ENRICO DE MARIA

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