Angelo Gilardino e l’ultimo approdo dell’anima

Gilardino accanto ad un bellissimo quadro dell’amico fraterno Gastone Cecconello

“Penso che l’ultimo approdo dell’anima sia un luogo con un suono, e questo pensiero mi tiene occupato in continuazione. Si lavora, ma si pensa sempre a quello. Non c’è altro”. Così Angelo Gilardino, il grande chitarrista e compositore scomparso la notte tra giovedì e venerdì a 80 anni, dichiarava in un’intervista rilasciata trentadue anni fa per una pubblicazione stampata dal Comune di Vercelli (sindaco Fulvio Bodo assessore ai Problemi dei giovani Carlo Robutti) nel venticinquennale della scuola chitarristica vercellese, che nacque appunto al Liceo Musicale Viotti nel 1965, su iniziativa del professor Joseph Robbone.

Commentando quel finale dell’intervista, sulla stessa pubblicazione, il filosofo e scrittore Sergio Givone,  amico di Gilardino sin dalla adolescenza, così scrisse: “Non c’è altro e c’è tutto Gilardino in queste parole. C’è la sua musica e il suo pensiero”.

Un’amicizia, quella tra la più grande personalità nel mondo delle sei corde con Segovia e il famoso filosofo e scrittore originario di Buronzo, che nacque nei primi Anni Sessanta, curiosamente ad una festa patronale “fra un ballo all’aperto e un luna park”. Fu lì che i futuri autori dei “Sessanta Studi di virtuosità e trascendenza” e della “Favola delle cose ultime” fecero amicizia ed incominciarono a frequentarsi. Givone, più giovane di tre anni, era studente del “Lagrangia”, Gilardino, orfano di padre, già lavorava per la “Manzoni”, la società che aveva l’appalto per la pubblicità sul bisettimanale “La Sesia”.

 Nel tempo libero, si ritrovavano nel giardino-orto di casa di Givone, a Buronzo, o nel chiostro di Sant’Andrea per discutere di letteratura e di poesia. E, tra un approfondimento del personaggio di Nastasia Filippovna ne “L’idiota” e di quello di Adrian Leverkuhn nel “Doctor Faustus” di Thomas Mann – come racconta Gilardino nella sua autobiografia in forma epistolare “Io, la chitarra e altri incontri” – ecco che i due incominciarono ad interrogarsi sul senso dell’esistenza.

E convennero nella spiegazione che solo l’arte poteva dare un senso alla vita perché è proprio l’arte che va alla ricerca di quel “qualcosa” che sta al di sopra degli oggetti materiali del mondo creando le “immagini” di quegli oggetti. Del resto lo ha ripetuto Gilardino proprio nell’ultima cerimonia pubblica cui è stato invitato e che gli ha donato un pomeriggio di serenità indicibile, distogliendolo dalla sua diuturna battaglia contro il male che lo aveva assalito ormai da diverso tempo: la festa per gli ottant’anni con la consegna della cittadinanza onoraria di Asigliano. In quella circostanza, egli disse: “Asigliano per me era il mondo dell’immaginazione, ed è stato la fonte permanente di tutto ciò che ho scritto”. Non la Asigliano reale, concreta, ma quella “immaginata” dalla sua arte e dunque ricreata “sopra il reale”.

Givone  e Gilardino hanno poi preso strade diverse, ma nella carriera di musicista e compositore dell’uno e in quella di filosofo e scrittore dell’altro entrambi hanno sempre seguito la conclusione raggiunta quel giorno, nel giardino di Buronzo dei Givone, sul significato dell’arte. Il filosofo e scrittore ha poi potuto metterla alla prova trovando una perfetta rispondenza a quel dialogo giovanile tra due menti, precoci ma già straordinarie, nella teoria delle “‘idee in movimento” dei personaggi di Dostojevski elaborata dal suo maestro, Luigi Pareyson; mentre Gilardino l’ha sperimentata “sul campo” componendo la sua musica e sorprendendo tutti perché lo faceva senza ricorrere né al suo strumento (la chitarra) né ovviamente ad altri, che non sapeva suonare (eccezion fatta per il violoncello). Quando si trattava di comporre concerti per chitarra solista o anche senza chitarra, come nel caso del suo “Concerto di Asigliano”, che è per contrabbasso e per sette strumenti, Gilardino creava utilizzando semplicemente la mente.

Sergio Givone

Ma c’è anche un’altra peculiarità che ha sempre contraddistinto il Maestro vercellese nel pur ampio e poliedrico alveo degli esecutori di chitarra. Da sempre egli voleva non solo eseguire al meglio le musiche degli altri autori, rispettandole totalmente senza svolazzi o libere interpretazioni, ma intendeva “capirle”. Le lezioni di armonia e di contrappunto di maestri come Aristide Colombo, Argeo Andolfi e Giuseppe Rosetta gli hanno consentito di comprendere il modo con cui la musica, quella che eseguiva, veniva “costruita”. Dopodiché, quando ha deciso di dire basta alla carriera concertistica – ultimo recital il 31 maggio 1981, al Dugentesco, presente Rosetta – è nato il Gilardino compositore, immensamente più grande del Gilardino concertista, pur bravo, ma non immenso.

Sono nate le sue opere che rimarranno immortali, e che egli non ha mai eseguito, lasciando il compito alla schiera che via via si è andata ingrossando degli interpreti. Oggi sono migliaia, in tutto il mondo: pochi giorni prima di morire, sulla sua pagina Facebook, egli aveva pubblicamente elogiato il chitarrista polacco Lukasz Kuropaczewski – che il maestro vercellese considerava il miglior strumentista vivente – per l’interpretazione del suo ultimo pezzo di chitarra solista “Contemplatio in caligine”. 

Gilardino con il sindaco Carolina  Ferraris nella sala consiliare del Comune di Asigliano il 16 novembre scorso

Oggi, sul Web tutto il mondo della chitarra è in preda allo sconforto e la frase che ricorre è “mi sento svuotato”. Perché davvero quest’uomo, figlio di un allevatore di cavalli caduto in disgrazia e della sua bellissima moglie, che “assomigliava a Rita Hayworth, ma che forse era anche  più bella”, riempiva la vita. Spesso, essendo stato suo amico per oltre mezzo secolo, mi divertivo a cogliere lo stupore del pubblico alla sue conferenze, ma anche alle lezioni pubbliche che teneva alla Caulera durante le cosiddette “Vacanze chitarristiche” (che erano tutt’altro che “vacanze”). Quando parlava, Gilardino aveva la capacità stregonesca di entrare nel cuore di tutti coloro che lo stavano ascoltando; potevi non sapere un’acca di José Martinez Palacios, ma lui ti faceva entrare in “empatia” con questo personaggio nuovo, spesso sconosciuto, perché la sua arte del raccontare stava creando in quel momento l’”immagine” dell’oggetto della narrazione, alla portata di tutti. Non banalizzava mai la storia, ma la sublimava grazie alla sua naturale predisposizione di rendere “arte” ogni cosa che produceva, fosse un’affabulazione piuttosto che una Sonata per due chitarre e orchestra. Per molti Angelo Gilardino era in fondo un enigma, ma nessuno era un enigma per lui, entrava nei cuori e incideva, anche dove “la spugna non giunge”.

Gilardino con il compianto Franco Perone e il grandissimo organista Arturo Sacchetti

E’ così che entrava anche e sempre nel cuore di tutti i suoi allievi e delle persone che, periodicamente o anche estemporaneamente, andavano ad ascoltarlo. Due volte un suo grande estimatore, l’ex presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli, Fernando Lombardi, lo aveva invitato a presentare libri nella Sala Conferenze della società in via Monte di Pietà, singolarmente proprio nel luogo in cui, grazie al professor Robbone, nel 1965, egli aveva incominciato la sua carriera di docente, senza alcun concorso o provino, ma per una semplice chiamata – e quindi investitura – del genio che aveva creato il Concorso Viotti (e che a Vercelli non ha incredibilmente ancora una via, una piazza, un giardino dedicati). Nelle due circostanze, Gilardino parlò del compositore fiorentino Mario Castelnuovo-Tedesco, costretto a riparare all’estero per le vergognose leggi razziali del fascismo, e del pittore Umberto Ravello, quasi misconosciuto a Vercelli e che Gilardino aveva letteralmente riscoperto, restituendogli una meritata visibilità. Non si sentì volare una mosca.

L’accenno alla riscoperta di un artista tanto valoroso quanto dimenticato, attuata con una ricerca storico-documentale accuratissima, ci porta a considerare il ruolo che questo vercellese illustre ha svolto anche in campo pittorico. Nella sua biografia, Gilardino lo scrive espressamente: avrebbe desiderato essere un pittore. Ma la Chiamata quel lontano giorno, il 21 aprile del 1951, con il concerto della Maga, Ida Presti, nel teatro di Modena era stata un’altra, e non si poteva sgarrare. Però restò l’amore anche per l’arte pittorica: la frequentazione giovanile con Gastone Cecconello  (durata fino alle 3 di questa notte), la scelta di riscoprire e di valorizzare i vecchi maestri piemontesi, non pienamente o niente affatto considerati dai critici e dai mercanti d’arte, ed infine la vocazione del figlio Alessandro,  talento emergente tra i talenti vercellesi: tutto ciò ha costituito una vita parallela stavolta non da artista, ma da intenditore – e che intenditore – delle produzioni “immaginate” da altri.

E anche qui, con quell’esborso davvero prodigo di generosità, spesso generato dalla riconoscenza. Ho avuto la fortuna di partecipare al gruppo di lavoro che la sindaca Maura Forte aveva creato per realizzare la sospirata mostra di Renzo Roncarolo in Arca, nel centenario della nascita: il gruppo era formalmente capeggiato dal presidente degli Amici dei Musei Pier Luigi Pensotti (tra gli altri ne faceva parte anche il compianto Mario Carrara, il fondatore di Meeting Art), ma in realtà anche Pensotti riconosceva la leardeship di Gilardino, che mise cuore e passione anche in quell’avventura. Lì, come in tutto il resto della sua vita.

Alla conferenza su Castelnuovo Tedesco partecipò anche il chitarrista Alberto Mesirca

Se n’è andato alle 3 di una notte in cui, in casa di un’amica, che sapeva, trepidava e sperava, i cani hanno incomprensibilmente latrato fino a quell’ora, per poi smettere al rintocco.

Più volte, come tanti altri, anch’io ho discusso con lui del “Dopo”. Non era un cattolico praticante, ma Dio era sempre nei suoi pensieri, Cristo il suo esempio, e non ha mai potuto pensare che di ciascuno di noi “Dopo” non rimarrà più nulla. Abbiamo letto Sergio Quinzio assieme, ma anche Harari, che gli ho fatto scoprire io e che gli era piaciuto, nonostante la teoria delle credenze religiose che sarebbero solo “Narrazione”. “In fondo – rispondeva – anche quella di Harari è una, pur intelligente, geniale e profonda, narrazione”.

Gilardino credeva nei “messaggi”, anche in quelli all’apparenza banali, che per molti suonerebbero del tutto inconsistenti. Per Natale gli regalai due libri di un autore che adorava, Pavel Florenskij, il filosofo, matematico e scienziato russo fatto uccidere da Stalin nel 1937. Gilardino lo definiva “il Leonardo da Vinci della Russia”. Mi chiamò per ringraziarmi e mi disse: “Sono una riedizione di libri che amavo e che avevo perso: prestati a qualcuno, non mi erano più tornati indietro. Adelphi li ha fatti ristampare in un formato un po’ più piccolo: i tuoi due libri colmano esattamente un vuoto che c’era nella mia libreria (ordinata in modo esemplare, ndr). Un centimetro in più, uno in meno, non avrebbero riempito esattamente quel vuoto. Non può essere una coincidenza”.

Quel vuoto – reale o metafisico che sia – è stato riempito. La nostra vita, invece, si è svuotata: allievi, colleghi, amici stanno attraversando il deserto della solitudine, più che dei Tartari, del Grande Sertao, il libro che Angelo Gilardino ha forse amato più di qualunque altro.

Tutti adesso sono più soli e si domandano chi potrà sostituire un tale Maestro, sapendo già la risposta: nessuno. Il mondo intero gli sta rendendo omaggio, domani migliaia di chitarristi, bravi e meno bravi, draghi e strimpellatori, impugneranno lo strumento per celebrarlo, e tutti spereranno che sia stata adempiuta, in qualche modo, la promessa che “nonno Mario”, e cioè Castelnuovo-Tedesco, gli aveva fatto di “tenergli un posto accanto a lui in paradiso”. Qualunque cosa sia il “paradiso”, anche un “luogo con un suono”.

Edm

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