25 aprile: quando l’arte e la poesia ci aiutano a capire

«E fummo vivi, insorti con il taglio / ridente della bocca, pieni gli occhi / piena la mano nel suo pugno: il cuore / d’improvviso ci apparve in mezzo al petto»: sono i versi che chiudono la poesia “25 aprile” di Alfonso Gatto. Oggi è la Festa della Liberazione che però quest’anno non potrà essere celebrata in piazza per via dei noti fatti legati al Covid-19. Tuttavia nulla vieta di ricordarla attraverso poesie (come appunto l’esempio di Gatto, ma anche Ungaretti, Montale, Pavese, Quasimodo), romanzi, pitture, sculture, film.

L’arte in generale ha sempre aiutato l’uomo a capire il mondo che lo circonda, quindi mai come in questo caso può tornare utile per fare un breve ripasso della nostra Storia più recente, specie del momento fondante della Repubblica. Dopo il 25 aprile di 75 anni fa, le cetre non ondeggiavano più appese alle fronde dei salici e la voce dei poeti poteva ritornare a cantare, perché il piede straniero non era più sopra il cuore. L’Italia era libera e poteva tornare a vivere.

L’elenco delle opere d’arte prodotte dopo la Liberazione è sterminato. Ognuno ha le sue preferite e citarle tutte sarebbe pressoché impossibile. Perciò ne abbiamo scelte tre: un monumento, una pittura e un film. Tutte raccontano, utilizzando strumenti diversi, quel triste periodo di guerra civile, culminato con la Liberazione dell’Italia.

All’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale una delle necessità più pressanti fu quella di lasciare un segno, una traccia ai posteri, per ricordare chi si era battuto e sacrificato per liberare l’Italia dall’invasore. Così nelle piazze vennero innalzate statue, cippi commemorativi e targhe, a dire il vero con risultati non sempre apprezzabili.

Tra le eccezioni il “Monumento ai caduti nei campi di sterminio nazisti” nel Cimitero monumentale di Milano, progettato dallo studio milanese B.B.P.R. (Banfi, Barbiano di Belgiojoso, Peressutti e Rogers) nel 1946. Si trova al centro di un aiuola in pendenza, sopraelevato rispetto a una croce di granito che gli fa da base e circondato da lastre che riportano i nomi dei milanesi morti nei lager.

La struttura è un cubo di metallo vuoto composto da tubi verniciati di bianco; intorno pannelli di marmo posti in maniera asimmetrica con iscrizioni celebrative; nel suo cuore una teca custodisce un urna cinta da filo spinato contenente la terra prelevata dal campo di sterminio di Mauthausen-Gusen dove nel 1945 Gian Luigi Banfi morì. Il monumento è anche un monito affinché la follia umana non sopravanzi mai più la razionalità.

Lontano dall’astrazione dei B.B.P.R. e più vicino alle tematiche della Resistenza è il ciclo di disegni e acquerelli intitolato “Gott mit uns” (“Dio è con noi”, scritta incisa sui distintivi dei soldati tedeschi), eseguito da Renato Guttuso nel 1944. «Io penso sempre più a una pittura che possa vivere come grido espressivo e manifestazione di collera, di amore, di giustizia, sugli angoli delle strade e sulle cantonate delle piazze» scriveva l’artista di Bagheria in una lettera a Ennio Morlotti.

Ed è ciò che avviene in “Gott mit uns”, in cui Guttuso rappresenta un mondo in preda alla barbarie che ha il suo più tragico e sconcertante epilogo con la strage delle Fosse Ardeatine, dove il 24 marzo del 1944 i nazisti per rappresaglia uccisero 335 innocenti. I dipinti sono caratterizzati da un duro realismo figurativo, cifra stilistica dell’impegno civile di Guttuso che intese la lotta partigiana come unica ancora di salvezza per contrastare l’aberrante violenza nazionalsocialista che aveva privato l’uomo dei suoi diritti fondamentali, tra cui la libertà di espressione.

Guttuso fu partigiano in qualità di ufficiale di collegamento tra il comando romano delle Brigate Garibaldi e il fronte della Marsica, e visse il difficile periodo dell’occupazione, perciò ebbe modo di conoscere da vicino le brutture della guerra. “Gott mit uns” è uno dei più brillanti esempi di arte impegnata che trae ispirazione da Goya. Non a caso una tavola richiama la celebre opera dello spagnolo “Le fucilazioni del 3 maggio 1808” in cui i soldati sono in procinto di giustiziare al muro degli innocenti, uno dei quali, quello vestito di bianco, apre le braccia urlando tutta la sua rabbia e la sua voglia di libertà.

La cinematografia italiana è stata profondamente segnata dai temi della guerra, della liberazione e della resistenza. Molte opere del Neorealismo ne sono la testimonianza tangibile. Tra queste spicca il capolavoro di Roberto Rossellini “Roma città aperta” del 1945. Il film, sceneggiato dallo stesso regista assieme a Sergio Amidei, a Celeste Negarville e a Federico Fellini, seppur realizzato in condizioni precarie con pellicola scaduta, attori presi dalla strada e set improvvisati, fu un autentico spartiacque per via dei temi trattati e dello stile semplice e diretto, opposto a quello precedente retorico e artefatto.

Memorabili le interpretazioni di Marcello Pagliero (l’ingegnere comunista Manfredi), Anna Magnani (la popolana Pina) e Aldo Fabrizi (don Pietro, ispirato alla figura di don Luigi Morosini). I tre protagonisti muoiono, torturato il primo e fucilati gli altri due, assurgendo a simboli di un’Italia esasperata che con le ultime residue forze ha voluto mettere fine alle tribolazioni e alle brutture della guerra.

Massimiliano Muraro

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