A Novara la mostra sul Divisionismo, a Vercelli l’epopea di Cominetti

Giuseppe Cominetti, I conquistatori del sole, 1907

Il 23 novembre al Castello Visconteo Sforzesco di Novara ha inaugurato la mostra “Divisionismo. La rivoluzione della luce” che andrà avanti fino al 5 aprile 2020. Otto sezioni tematiche e settanta opere raccontano il percorso del movimento nato a Milano nell’ultimo decennio del XIX secolo.

Formalmente il Divisionismo guarda al Neoimpressionismo francese; dal punto di vista tecnico, il colore diventa fenomeno ottico e, alla dovuta distanza, l’occhio dello spettatore può ricomporre le pennellate staccate in una sintesi tonale, percependo una maggior luminosità nel dipinto.

I suoi principali interpreti, presenti alla mostra novarese, sono Vittore Grubicy, Giovanni Segantini, Gaetano Previati, Daniele Ranzoni, Emilio Longoni, Angelo Morbelli e, forse il più celebre, Giuseppe Pellizza da Volpedo, autore del “Quarto Stato”, dipinto del 1901, presto assunto a icona, che può definirsi il primo documento di un fermo impegno dell’arte nella lotta politica del proletariato.

In passato la critica non è stata benevola con il Divisionismo, tacciato di leggero idealismo, in particolare da Giulio Carlo Argan, il quale lo accusò di non avere un autentico interesse per la scienza, ma solo romantico entusiasmo. Il Divisionismo, secondo il grande storico dell’arte, non avendo compiuto direttamente l’esperienza dell’Impressionismo, rimase dunque «una tecnica al servizio dello spirito».

Argan ragionava con la mente dell’uomo figlio di una concezione dell’arte derivata dalle avanguardie, secondo cui l’opera ha il dovere di avere delle ripercussioni sulla società e di smuovere la coscienza critica dell’individuo. Se Argan applicava la filosofia alla storia dell’arte, oggi invece la tendenza è quella di offrire, non una lettura politica, bensì un quadro più oggettivo, scevro di qualsivoglia interpretazione strutturale.

In tale direzione si muove la mostra di Novara, curata da Annie-Paule Quinsac, una tra le prime persone a essersi occupata di Divisionismo fin dagli anni ’60. Il taglio che ha scelto non è soltanto cronologico. Le otto sale, pur essendo legate tra di loro, possono leggersi come monografie a sé stanti, sia di singoli artisti che di momenti fondanti, come lo è quella dedicata alla prima Triennale di Brera del 1891, prima uscita ufficiale del Divisionismo in Italia.

Lasciando al visitatore la curiosità di scoprire le opere esposte, possiamo affermare che vale sicuramente la pena fare un salto a Novara perché quella sul Divisionismo è senz’altro una mostra riuscita, che aiuta a fare luce su un periodo che vide tra i suoi protagonisti molti piemontesi come Morbelli e Pellizza da Volpedo.

Ora, in attesa che anche Vercelli sveli i suoi programmi culturali del futuro (l’ultima mostra in Arca è stata quella sulla Magna Carta, dopodiché nulla è stato annunciato) e sperando siano all’altezza dell’offerta novarese, è giusto sapere che tra i divisionisti della seconda ora c’è stato anche un vercellese, un artista che fin da giovane fu affascinato da quella pittura teorizzata da Previati che «riproduce le addizioni di luce mediante una separazione metodicamente minuta delle tinte complementari».

Si tratta di Giuseppe Cominetti. Il Museo Borgogna gli dedicò una mostra nel 2010 in occasione dell’acquisizione di una sua opera. Allora il curatore Massimo Melotti si soffermò su «la stanza dell’artista» come luogo della memoria e della riflessione. A ragione se pensiamo che Cominetti è stato il testimone di una stagione di fermento culturale senza eguali, facendo da trait d’union tra il Divisionismo e il Futurismo che muoveva allora i suoi primi passi.

Non fermandosi al proprio orticello, si è anche incontrato con il tormento espressionistico dei vari Munch, Nolde e Schiele, non ignorandolo ma facendolo suo. Indizio tangibile di un coinvolgimento per le correnti contemporanee che ha cercato in qualche modo di mediare. Invece di restare invischiato nell’inevitabile declino retorico divisionista, egli ha provato a confrontarsi con le avanguardie, pur conservando una certa indole aristocratica e se vogliamo piuttosto individualista.

Giuseppe Cominetti nasce a Salasco il 28 ottobre 1882 e muore a Roma il 21 aprile 1930. Figlio del fittavolo e dipendente comunale Antonio e di Maria Carignano, compie gli studi a Torino e Vercelli. Nel 1902 la famiglia è costretta a fermarsi a Genova perché il padre, dopo aver venduto le sue proprietà per trasferirsi in Sudamerica, scopre di essere stato truffato.

È in quegli anni che Giuseppe si avvicina al Divisionismo e con il fratello scrittore Gian Maria apre uno studio in via Montaldo. Lì vi transitano figure centrali dell’arte italiana di inizio Novecento: Leonardo Bistolfi, Camillo Sbarbaro e soprattutto quel Plinio Nomellini che influenzerà non poco il giovane. Nel 1907 realizza delle litografie dedicate a Segantini e Fontanesi per le illustrazioni di un volume di poesie del fratello.

L’anno della svolta è il 1909 quando espone per la prima volta al Salon d’Automne di Parigi due tele capitali: Vénération e I conquistatori del Sole, dipinto del 1907 già esposto alla Promotrice che affronta la tematica del lavoro e che «segna certamente il più impegnativo contatto che l’artista instaurò con i divisionisti».

Passando dall’atelier di Montparnasse a quello di Montmartre è tra i primi a leggere il Manifesto Futurista di Marinetti pubblicato su Le Figaro. Il soggiorno parigino è estremamente importante perché è in quel frangente che Cominetti si rinnova, abbandonando il disegno a vantaggio del colore. Ciò significa una libertà di pennellata che restando in Italia non avrebbe mai acquisito e che tradotta concretamente si svolge in una maggiore autonomia espressiva.

La Grande Guerra però incombe e Cominetti parte per il fronte come tanti suoi coetanei esaltati dagli incitamenti futuristi di Marinetti. Dapprima interventista convinto, in seguito rivede le sue posizioni quando tocca con mano l’inutile barbarie del conflitto. Ne consegue un allontanamento progressivo dal Futurismo; infatti nei disegni non esalta affatto il mito della macchina e del movimento o della «guerra sola igiene del mondo», ma preferisce concentrarsi sulla rappresentazione della tragedia.

Tornato indenne riprende la sua attività artistica rivelandosi non solo pittore, ma anche scenografo e decoratore di arredi per il suo studio. Sgabelli, scrivanie, poltrone e tavoli, tutti stile Art déco con linee asciutte e minimali. Si interessa poi alle favole, come ad esempio nella serie Maschere (Alì Babà, Cappuccetto rosso, Il Gatto con gli stivali e Orfeo) o quelle pensate per una stanza dei bambini (I due re, L’orso e il trovatore, Il corvo e la volpe).

Infine per chiudere questa ideale carrellata ricordiamo due dei suoi capolavori più celebrati, entrambi del 1919: L’Électricité e Le Forgeron (oggi al Borgogna) che assieme a L’Édilité e a una quarta opera di cui però si sono perse le tracce costituivano un polittico dedicato alla sacralità del lavoro, visto da Cominetti come unico segno di progresso per l’uomo.

Massimiliano Muraro

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