Le vie dei campi di Cuocolo e Bosetti che ridisegnano i nostri ricordi

Foto Livio Bourbon

È possibile partecipare a uno spettacolo teatrale stando seduti su un pulmino? Bendati? Passeggiando al buio su un sentiero di campagna? E poi sul greto di un fiume? Sul subito sembrerebbero domande campate per aria, formulate da uno che ha alzato un po’ troppo il gomito, invece sono più che legittime se lo spettacolo in questione è Le vie dei campi, produzione Cuocolo/Bosetti, inserito nella rassegna #ogniluogoèunteatro, andato in scena per l’ultima volta giovedì 22 settembre dopo numerose repliche.

«La nostra filosofia consiste nel sovrapporre il teatro alla vita, creando delle situazioni in cui lo spettatore vive un’esperienza piena», questa in sintesi la filosofia di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, due anime belle del teatro che, dopo un lungo periodo vissuto a Melbourne, si sono trasferite a Vercelli dove hanno portato un’autentica ventata di novità con il loro teatro fatto di ricerca, sperimentazione, condivisione e partecipazione.

Foto Livio Bourbon

Genova, Roma, Vercelli, Melbourne e ancora Vercelli. In queste quattro città è riassunta tutta la storia di IRAA Theatre e dei suoi due protagonisti. Nel capoluogo ligure è nato il regista Renato Cuocolo che nella capitale ha fondato nel 1978 la sua compagnia teatrale (in seguito spostata a Melbourne nel 1988); lì ha conosciuto nel 1996 l’attrice vercellese Roberta Bosetti alla quale ha chiesto di trasferirsi in Australia con lui. Infine il cerchio si è chiuso con il ritorno in patria.

The secret room con le sue oltre 1.500 repliche in tutto il mondo, Roberta torna a casa, The Walk, sono soltanto tre delle produzioni Cuocolo/Bosetti, che finora nel loro cammino vercellese hanno coinvolto diverse realtà locali, come ad esempio Arteinscacco che ha organizzato insieme a loro e a Teatro di Dioniso #ogniluogoèunteatro.

Spiegare il loro teatro in poche righe è compito piuttosto arduo da portare a termine, per questo motivo ci sentiamo di consigliare due testi illuminanti. Uno è il sempre valido Lo spazio del Teatro (Laterza, 1992) di Fabrizio Cruciani, utile a comprendere il perché ogni luogo può essere davvero teatro; l’altro è Interior sites project (Titivillus, 2017) di Laura Bevione: un libro-intervista che racconta in maniera analitica e colloquiale il fenomeno Renato Cuocolo e Roberta Bosetti.

Non si spaventi il lettore perché per assistere ai loro spettacoli non serve un background specifico. Se così fosse ci troveremmo davanti a un processo di esclusione, mentre al contrario la loro operazione culturale è altamente inclusiva e coinvolgente, in quanto lo spettatore diventa un elemento vivo e attivo dell’esperienza rappresentata, al pari della drammaturgia, della regia, dell’attrice con la quale interagisce e, non ultimo, del luogo in cui si trova.

Tutto ciò lo sa bene chi ha partecipato alle oltre dieci repliche di Le vie dei campi, tutte sold-out. All’inizio il clima è quasi da gita scolastica: il ritrovo davanti a un posto prestabilito (Palazzo Pasta), l’invito a salire sul pulmino dove riconosciamo seduta a fianco del conducente la cantautrice Carlot-ta, scambiare quattro chiacchiere con i vicini di posto, la partenza, l’uscita dalla città.

A quel punto il vociare dei presenti tace, dentro al veicolo (divenuto spazio teatrale) partono i suoni della natura proprio mentre le ultime case vengono inghiottite dalle risaie. Ed eccola, la voce calda, avvolgente e rassicurante di Roberta Bosetti. Bendata ci racconta un paesaggio che in quel preciso istante stiamo vivendo con i nostri occhi. Lo conosciamo a menadito, è parte della nostra quotidianità, ma stranamente ci appare diverso. Oltretutto la magia o la fortunata coincidenza fa combaciare le parole di Roberta, che non vede ciò che racconta, a ciò che noi invece vediamo: il riso maturo, la luce soffusa del tramonto, gli stormi di uccelli, una cascina.

Foto Livio Bourbon

C’è un semaforo rosso, il pulmino si ferma e Roberta consegna a ognuno dei presenti una benda di raso colorata, la stessa che indossava lei pochi istanti prima e che ora indosseremo noi. La marcia riprende e noi perdiamo il senso dell’orientamento, siamo in una zona d’ombra. «Io l’ho visto il riso» ci sussurra una voce.

La voce di Roberta che ci parla dei suoi ricordi di infanzia: la pesca delle rane col nonno, l’incapacità di spezzare loro le gambe, la rabbia nel non volerlo fare, un panino con la nutella mangiato su una panchina davanti a un cimitero. La mente di chi ascolta allora corre indietro, fino a ricordare che in fin dei conti quelle avventure sono state vissute da ognuno di noi in passato. Il miracolo del teatro è che tutti, con gli occhi chiusi, stiamo dando forma ai luoghi, ai profumi, alle voci di quel tempo che credevamo perduto, ma che ci si presenta innanzi con una violenza inaudita.

Quando ci togliamo la benda le sorprese non sono finite: ecco un taccuino e una penna per scrivere il nostro personale ricordo sparito che poi verrà riposto in una scatola. È ormai buio, le ruote del veicolo cominciano a sobbalzare, una sbarra messa di traverso sulla strada lo costringe a frenare. Si aprono le porte e il pubblico è invitato a scendere. Due torce illuminano il sentiero, accompagnato dai rumori della natura. In religioso silenzio si procede in fila indiana fino a un organetto protetto da un telo, che Carlot-ta scopre regalandoci qualche nota.

La marcia ricomincia, i passi si fanno incerti, i contorni di chi ci precede sfumati, il sentiero diventa ghiaia, poi pietrisco, e ci conduce sul greto del fiume. Lo riconosciamo perché in lontananza sentiamo un rumore che conosciamo bene: lo scorrere placido dell’acqua. Roberta prende in mano una vanga e scava un buco neppure troppo profondo dove infila i biglietti con tutti i nostri ricordi e li ricopre. La colonna sonora di questo funerale pagano spetta a Carlot-ta e alla sua chitarra.

Foto Livio Bourbon

Il corteo ritorna silenzioso, commosso e incredulo al pulmino che lo ricondurrà al punto di partenza. Le persone che hanno partecipato si scoprono cambiate grazie a questa affascinante operazione semantica in cui l’aspetto descrittivo si mescola prima a quel che è visto e poi a quello che è narrato ma nascosto, fino a giungere alla stimolazione obbligata di ciò che è immaginato: parole e immagini dunque, esplicite e implicite, combaciano come in un puzzle, le cui tessere appartengono a noi.

Lo spettacolo è finito, il teatro si è palesato dove meno uno lo aspettava: nelle vie dei campi. Quelle che ognuno di noi almeno una volta ha percorso in un tempo che credeva lontano e smarrito. Ma è bastata una piccola poetica spinta e la memoria involontaria ha fatto capolino, presentandosi innanzi con tutta la sua spietata dolcezza.

Massimiliano Muraro

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1 commento

  1. Spattatori come parte attiva della rappresentazione!? Il veicolo come spazio teatrale sotto l’organizzazione prestabilita.. ben più autentica sarebbe stata la narrazione se fra i viaggiatori vi fosse stato un dirottatore clandestino.

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