Avventure e disavventure della Mondina di Agenore Fabbri

Fonte La Stampa

In questi ultimi giorni è tornato a far parlare di sé il Monumento alla Mondina di Agenore Fabbri. La scultura che si trova in parco Kennedy, proprio davanti alla stazione ferroviaria, è stata letteralmente vestita con pagine di giornale. Sono state formulate diverse ipotesi, dall’atto vandalico alla provocazione artistica, per arrivare alla goliardata di qualche buontempone in cerca di visibilità.

Il mistero è stato presto svelato: si tratta di un’iniziativa del Comitato di Vercelli Antifascista e Antirazzista per celebrare il 25 novembre, data in cui ricorre la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Dunque un gesto per sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema più che mai attuale, partendo proprio da quelle donne che hanno lottato duramente per affermare i propri diritti, umani e lavorativi.

A questo punto però, al di là della notizia in sé, pensiamo sia doveroso spendere qualche parola su questa scultura e sull’artista che l’ha realizzata, tanto più che sui social si è aperto un dibattito, non tanto sulla vestizione estemporanea della mondina, quanto sul suo valore estetico. Una diatriba che ritorna periodicamente di moda tra i vercellesi, almeno da quando l’opera fu inaugurata nel 1984, sotto la pioggia battente, alla presenza dell’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, accolto dal sindaco Ezio Robotti, subentrato a Ennio Baiardi (nel frattempo diventato senatore) e da tutta la cittadinanza.

La realizzazione del Monumento suscitò fin da subito un vespaio di polemiche perché Fabbri, già dai bozzetti, aveva in mente la mondariso magra, col seno scoperto. Tuttavia dopo varie proposte e riunioni si optò per una versione più pudica dove il seno veniva coperto dall’abito.

«È curioso notare che la scultura è sempre stata apprezzata maggiormente da chi veniva da fuori – racconta Marco Barberis, allora assessore alla Cultura – Ricordo in particolare le reazioni delle mondine che arrivavano da Reggio Emilia, da Brescia, dal Veneto. Purtroppo nei vercellesi ha sempre suscitato indifferenza e a volte anche ostruzionismo. Mi piace sottolineare il fatto che è opera di un grande scultore e che per la prima volta in città protagonista del monumento era una donna».

La statua appoggia tuttora su un piano rettangolare di pietra liscia, allagato da un impianto idraulico perimetrale, che nelle intenzioni originali doveva simulare la risaia (fu azionato poche volte in seguito). Proprio a questa soluzione si lega un fuori programma del presidente Pertini che già qualche tempo prima era stato a Vercelli per raccontare la sua storia agli studenti della scuola Lanino, i quali furono letteralmente ipnotizzati da quest’uomo che, quando serviva, sapeva scagliarsi con veemenza contro l’inefficienza delle istituzioni, ma sapeva anche gioire come un bambino, come quando l’Italia vinse i Mondiali di calcio nel 1982.

«Quel giorno diluviava – rammenta Ezio Robotti – Sandro Pertini si presentò tutto azzimato, vestito elegante, circondato dalla scorta. Sul palco, che avevamo sistemato poco distante, tenni il mio discorso in cui ripercorrevo la storia delle mondine. Lui ne fu molto colpito e a un tratto si diresse da solo a piedi verso il Monumento per togliere il drappo che lo copriva. Una decisione che rompeva il protocollo e che ci spiazzò non poco. Solo che per portare a termine il compito doveva salire sul basamento e lì, con le scarpe che aveva, rischiò seriamente di scivolare. Dovemmo sostenerlo affinché ciò non accadesse. Fu un gesto imprevedibile, tipico di un uomo risoluto che quando voleva, sapeva essere bonario».

Ora, un breve preambolo è necessario, prima di addentrarci nella questione relativa al Monumento alla Mondina e al suo esecutore, Agenore Fabbri: bello o brutto appartengono al dominio dell’estetica, quella branca della filosofia già in auge tra i greci e codificata solo negli ultimi secoli. Fu il tedesco Baumgarten a utilizzarla per primo a metà del XVIII secolo, ma fu poi sviluppata in maniera più organica da Kant e da Hegel. Da lì in avanti se ne occuperanno tutti i maggiori pensatori: Nietzsche, Schopenhauer, Benjamin, Merleau-Ponty, solo per citare i più noti.

Non è dal punto di vista estetico che tratteremo della mondina di Agenore Fabbri, bensì da quello della Storia dell’Arte a cui l’estetica interessa sì, ma solo per contestualizzare meglio i fenomeni che prende in esame. In termini spicci, è difficile che da uno storico dell’arte si senta dire che un quadro, una scultura, un’architettura siano belli o brutti. Si sentirà invece dire come, quando e perché essi sono stati prodotti. Chissà che in tal modo anche il giudizio estetico, il più delle volte superficiale, muti o almeno prenda maggiore coscienza.

Chi era Agenore Fabbri? Nato a Barba, frazione del Comune di Quarrata, provincia pistoiese, nel 1911, studia all’Accademia di Belle Arti di Firenze e, negli anni della giovinezza, frequenta il Caffè Le Giubbe Rosse, dove ha modo di venire in contatto con Eugenio Montale, Carlo Bo, Mario Luzi e Ottone Rosai. Incomincia i primi esperimenti artistici in terracotta, materiale povero che non ha i costi proibitivi del bronzo e del ferro.

Nel 1935 si trasferisce ad Albisola dove conosce Arturo Martini e Lucio Fontana e inizia ad affermarsi come scultore. Dopo aver prestato servizio in Jugoslavia, durante la Seconda Guerra Mondiale, si divide tra Milano e l’amata Albisola, cittadina che in breve tempo diventa un crocevia di personalità di spicco del mondo dell’arte. Da lì transitano tutti: Marini, Capogrossi, Manzù, Manzoni, Appel e altri ancora. A partire dagli anni ’80 Fabbri riscopre la pittura che alterna alla scultura fino alla morte nel 1998.

La poetica di Fabbri è influenzata dall’Espressionismo. Le figure che tratteggia e che plasma trasudano sofferenza, sono esili, scarnificate, drammatiche nel loro urlare al mondo il peso dell’esistenza, tematica per lui sempre attuale. Il poeta Rafael Alberti lo definirà «scultore della rabbia, terribile amico contagiato dalla cieca frenesia del nostro tempo, che nella materia furiosamente plasmata versa gocce di luce che lottano per illuminare un giorno l’universo».

In quegli anni, cioè quelli che precedono e che, soprattutto, seguono la Seconda Guerra Mondiale l’arte si interroga profondamente su se stessa e sul messaggio di cui è portatrice. La fiducia tipica delle Avanguardie comincia a vacillare, tutto è messo in discussione. Si potrebbe stilare un elenco quasi infinito degli artisti messi in crisi dal contesto storico vissuto in prima persona: Carlo Levi, Mino Maccari, Renato Guttuso, Mirko Basaldella, solo per restare in ambito italiano.

Agenore Fabbri appartiene a quella schiera. «Le sue immagini non sono soltanto immagini plastiche, sono soprattutto immagini della coscienza e del mondo, immagini di giudizio e di tragedia», scrive di lui lo storico dell’arte Mario De Micheli. È un po’ come se le opere dell’artista invitassero l’uomo a una seduta di analisi e lo mettessero di fronte ai suoi spettri, alle sue paure. Che in quegli anni sono riconducibili alla tragedia bellica e alle conseguenze irreparabili che essa si è portata appresso.

Ecco, occorre capire il vissuto di Fabbri per capire l’opera di Fabbri. La mondina vercellese è il punto di arrivo di un percorso, cominciato già nel 1947 con Donna del popolo, La madre, La madre nuda della Guerra. Figure femminili che non possiedono quella grazia e quell’eleganza vagheggiate nelle Accademie, posseggono al contrario orrore, durezza, consapevolezza di essere di fronte alla vita reale, non idealizzata. «Erano immagini che si torcevano come lingue di fuoco. La terracotta policroma, una terracotta ruvida, frastagliata, screpolata, diventò il mezzo più efficace per raccontare il tormento da cui si era appena usciti», è ancora De Micheli a parlare.

Ecco allora che iniziano a comprendersi le scelte di Fabbri nello scolpire la sua mondina. Che non è la lavoratrice di Morbelli, tanto meno quella di Gazzone oppure il Seminatore di Gartmann nella vicina piazza Roma, che comunica fiero ottimismo nel progresso. È la mondina, figlia di quelle madri citate poc’anzi, che denuncia la degenerazione irrazionale della storia, ma che ha l’orgoglio di alzare la testa e indicare la strada o la direzione da prendere (più prosaicamente da dove giungevano i treni che conducevano le donne). Non può essere pasciuta e trasognata la donna di Fabbri, non dopo aver faticato tutto il giorno in risaia, non dopo aver lottato per ottenere le otto ore lavorative. È scarna, logorata dalla dura vita che conduce e che le ha lasciato crepe incancellabili sul corpo.

Del resto, Fabbri già lo diceva nel 1970, quale fosse la sua idea: «Lo scopo fondamentale della scultura, per me, non è l’esaltazione della forma, ma rivelare, attraverso la forma, i contenuti della storia contemporanea: deve agire sulla materia, piegarla e tradurla in simboli, attraverso una relazione fatta di sangue e passione». Nel 1983 tutto ciò lo traduce nella Mondina che può dare pure fastidio ai cultori dell’estetica prêt-à-porter, ma che è lì, ritta e ostinata, a testimoniare la speranza e la possibilità di un domani migliore. Un atto d’amore e al tempo stesso di allarme nei confronti dell’arte e della vita.

Massimiliano Muraro

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2 Commenti

  1. Agenore Fabbri sarà stato “al centro” dei principali movimenti culturali del suo tempo. Espressionismo ecc… Ma.. quanto ad originalita’ della sua opera lascia un po’ a desiderare… e’ la copia di tutti quei grandi che si citano a contorno, per tessere le lodi. Per quanto riguarda la Mondina, chi ne ha conosciuta qualcuna non ve ne riconoscera’ certamente il prototipo. E’ al massimo la Mondina che vuol immaginare Agenore. Non solo fisicamente. La postura, se veramente stava ad indicare le FF. SS … sarebbe quasi da ridere.. ancora peggio. un vigile urbano (con rispetto per loro)! A me pare, al massimo, il primo arbitro donna che indica il dischetto del rigore. Come direbbe Campanile per Nicola e Paolo Panelli per Vercingetorige, mi chiedo se l’enciclopedico Fabbri sarebbe stato quel celebre artista Ufficiale d’Italia se non si fosse chiamato Agenore.

  2. Dialogo fra 2 amici qualsiasi, in un posto qualsivoglia, a conclusione di una lunga discussione, non importa l’argomento.
    Il primo amico (rivolgendosi al secondo)… mavaaa! mava’… ma chi l’ha detto?! Non ci credo.
    Il secondo (al primo) Perbacco, lo sostiene Agenore!
    Il primo (risponde all’altro) A-Agenore?… Ah! …….. scusa! non lo sapevo.

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