Addio Mino Givogre, che amavi la “Bernadette” dei record e “La Vita è bella”

Addio, Mino. Un sabato notte caldo e feroce ti ha portato via a tutti noi, così, all’improvviso. Senza farti intravedere quale sarebbe stata la fisionomia della tua Pro, senza farti perscrutare come si sarebbe profilata la nuova stagione cinematografica. Ma soprattutto senza consentirti di salutare come avresti voluto la tua Teresa, i tuoi Tommy, Costi ed Edo, e i tuoi nipoti, per cui stravedevi.

Addio Mino, il tuo amato “Italia” ha chiuso qualche giorno fa “per ferie”, e non ci sarà nessun cinema sotto le stelle (una delle straordinarie invenzioni della famiglia Givogre) ad allietare i cinefili vercellesi;  l’”Astra” non ha ancora un destinazione e, a poco a poco, la televisione si sta fagocitando la Settima arte, trasformando la visione del film da popolare ad attorno al caminetto.

Quante cose abbiano condiviso, e quante me ne hai insegnate. E non solo in ambito cinematografico. Fui tuo allievo ad inizio Anni Settanta all’Itis. Non avendo una palestra interna andavamo alla Pro Vercelli in quella sorta di palestrina carica di ricordi – anche gloriosi -, ma soprattutto di anni, troppi anni. E lì tu sperimentavi, su di noi allievi-cavie, la “scuola coraggio”appena appresa all’Isef.

Io arrivavo dal professor Cascio, che ci addestrava alla pertica e ad un morigerato quadro svedese, per poi sganciarci subito il pallone da basket. Tu ci facevi appendere con i piedi in alto sulla spalliera, e poi giù, con un salto all’indietro. Che paura. Quando, anni dopo, auspici i miei primi articoli anche sul cinema, a La Sesia, ebbi la gioia e il privilegio di diventarti amico e di darti del “tu”, ti ricordai quei tentativi di farci morire di paura, sperimentando cose che nemmeno i navy seals, tu ti divertivi un mondo. “Sei vivo e vegeto, goditi un bel film”, rispondevi con il tuo sorriso contagioso.

Di te rideva la bocca ma ridevano soprattutto i tuoi occhi, sempre in esplorazione, mai spenti o freddi. Dispensavi simpatia, tutti ti volevano bene. E, soprattutto eri una dinamo inesauribile. I tuoi fantastici genitori ti avevano trasmesso un messaggio ben chiaro: per essere vincenti – nella vita e, vista l’attività di famiglia, nell’imprenditoria cinematografica – non è sufficiente avere una buona idea e viverci di rendita. Al contrario, occorre inventarsi sempre qualcosa, osservare, capire e poi innovare. E, soprattutto, bisogna essere generosi, dare, dare, dare e ancora dare.

Hai raccolto quei talenti e non li hai sotterrati: li hai fatti fruttare. Già i tuoi nonni, Giacomo ed Eugenia, come ricorda Bruno Casalino nella sua notevole “Vercelli in Celluloide”, avevano infilato il varietà nel loro cinema Umberto di Torino; tuo papà Antonio e tua mamma Isabella hanno rivoluzionato la storia storia del cinema a Vercelli, rifacendo due volte la sala (poi è toccato anche a te), instaurando la stagione estiva all’Enal ed escogitando un approccio del tipo familiare con la clientela meno abbiente o più anziana: memorabile lo spettacolo pomeridiano che veniva offerto agli ospiti della Casa di Riposo (al nos Ritìr).

Per infusione genetica tu hai assorbito tutte queste cose e le hai dispensate con generosità, lanciando iniziative su iniziative: i tuoi fantastici Martedì al cinema, nati nel 1979 da una chiacchierata con Tonino Greppi e di fatto mai morti, anche con le gestioni successive alla tua; gli inviti a personalità del cinema come Alberto Sordi, Silvio Orlando, Margherita Buy, Michele Placido, Kim Rossi Stuart, Ganmarco Tognazzi. Venivano per te e per il tuo Tommy che, intanto, aveva adottato da te la tua passione e che ti diede una mano rilevante quando si trattò di fronteggiare la battaglia campale – a cui poi vi sareste arresi, ma dopo aver lottato strenuamente – contro le Multisale.

Alla fine, hai dovuto assistere alla chiusura anche del tuo Italia, ma poi anche alla coraggiosa iniziativa di chi l’ha rimesso in piedi, e quel giorno, hai gioito, come se quella sala fosse stata ancora tua (e in effetti lo era, lo sarà sempre perché ci avevi parcheggiato il cuore). E allora, non più da gestore o da proprietario, ma da appassionato, da nonno, partecipavi a tutte le iniziative che riguardavano il cinema, ad esempio alle presentazioni dei libri che ricordavano quei tempi. E raccontavi, raccontavi, con gli occhi accesi più di vero amore che di passione.

Raccontavi di quel “Bernadette” del 1947 con il probabile record (tuttora) di spettatori: gente che arrivava dal contando, anche con i carri trainati dai cavali. E i “Martedì al cinema” con i critici Giorgio Simonelli e Guido Michelone, tra gli altri, a presentare i film e poi a discuterne, con i quiz proposti dalla Stampa (c’ero anch’io tra i fautori di quei giochi), con l’imbarazzo di quel giorno in cui tu avevi deciso di proiettare “Gola profonda” (la vera versione di “Gola profonda”). Ti avvisarono che forse quel film era un po’ troppo “spinto” per un pubblico che, in buona parte, di pomeriggio frequentava il Caffè Alberico. Chiamasti l’operatore per una visione di controllo, tu e lui. In effetti, il film era “spinto”, ma ben più di quanto ti aspettassi. Così, procedeste di forbice (c’erano ancora le “pizze”) come il parroco di “Nuovo Cinema Paradiso” e Philippe Noiret: ma i tagli pur drastici non furono sufficienti a scongiurare il fuggi fuggi delle madamin (e consorti) nell’intervallo.

E poi raccontavi dei film che ti avevano commosso, come Casablanca e La Vita è Bella, e dell’Amici Miei 1, che avresti visto e rivisto milioni di volte, tanto ti aveva emozionato e divertito.

Ascoltarti era una meraviglia, anche perché io col pensiero andavo a tutti quei film. E ti raccontai allora io il pomeriggio in cui ero venuto all’Italia, decenne, per tentare di vedere l’horror di Roger Corman “I vivi e i morti”, tratto da un racconto di Poe, ma vietato ai minori di 14 anni. Avevo convinto mio papà ad accompagnarmi, pensando che il suo consenso avrebbe aggirato il “divieto”. Ma tuo papà Antonio fu irremovibile: “La legge è chiara”. Quel giorno “odiai” un po’ i Givogre, come “odiai” te, per un anno scolastico, con la tua scuola coraggio da incubo. Ma tu sai che il termine “odiare” che uso qui è volutamente esagerato. Perché ho invece amato per tanti aanni la tua famiglia, la tua cara mamma, la tua Teresa. Ma soprattutto ho amato te, dell’amore viscerale con cui si amano le persone che condividono le tue passioni: per me, il cinema è allo zenit, e tu per me eri “il cinema”.

Addio Mino Givogre, che hai regalato a me e a migliaia di persone sogni ad occhi aperti, nelle due-tre ore in cui si spegnevano le luci e venivamo proiettati nell’altra orbita della vita, irreale, ma non per questo meno cara. Addio Mino che dipingevi quadri permeati di stile, gusto, sentimento, nel caro ricordo del maestro che ti aveva insegnato, il Pimpi.

Addio Mino, che non riuscivi a frenare le lacrime, quando sapevi che qualcuno cui volevi bene (ed erano un esercito, in pratica tutti i vercellesi) se n’era andato…oltre. Oggi tocca a me e a tutti noi piangerti, citando inevitabilmente il “Lamento” di Lorca: tarderà a nascere, se nasce, uno come te.

Ti sia lieve la terra

Enrico De Maria

(La bella immagine di Mino Givogre a corredo dell’articolo ci è stata fornita da Andrea Cherchi)

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