Il virus carogna e la fine della stagione degli incompetenti

 

Ci sono una serie di dati che, come martelli, battono e ribattono sulla campana vuota di ciò che rimane del nostro frastornato Paese, scuotendo i pensieri per quello che vediamo ogni giorno attorno a noi. A un mese e qualche giorno da quando il nostro Governo, a colpi di decreti del Presidente, ha messo gli italiani ai domiciliari, il numero dei contagiati da Covid-19 in Germania ha superato di slancio quelli della Cina, avviandosi verso quota 100 mila unità. Ma, e qui sta il punto, il tasso di mortalità tedesco continua a rimanere decisamente basso. Sono infatti quasi 1300 i decessi nei sedici Laender federali. Solo milletrecento, e noi sfioriamo quota 16mila! Una letalità, per loro, in rapporto ai contagiati, di poco meno dell’1,3%. Letalità che era ancora dello 0,8% appena una settimana fa. E qual è il tasso di letalità da noi, dove viviamo reclusi senza per ora sapere fino a quando? Il 12,2%. Il dato più alto in Europa, più di Spagna (10%), Francia e Gran Bretagna (che si attestano tra il 6 e l’8%). Che cosa può dirci il tasso di mortalità in rapporto ai contagi? Semplice: l’efficienza delle misure adottate, l’efficacia delle strategie di cura/ospedali/tamponi/quarantene/isolamento.

Cosa accade in Germania? Leggiamo sul Corriere della Sera che, pur soppesando il dato dell’età media dei contagiati teutonici che è significativamente più bassa rispetto a noi (49 anni contro i 62 di Italia e Francia), la questione cruciale è stata probabilmente quella dei test. Una strategia che agisce, di fatto, sia sul piano statistico sia su quello sostanziale. Nessuno in Europa ha compiuto tanti tamponi come la Germania, che sta reagendo all’emergenza al ritmo di quasi 400 mila test la settimana e si sta attrezzando (anche con i cosiddetti «corona taxi» per i prelievi a domicilio) per arrivare a 100 mila test al giorno. Capito? Una progressione delle analisi che porterà nel giro di un mese ad avere testato poco meno della metà di tutta la popolazione. Questa strategia abbassa automaticamente il tasso di mortalità, ma soprattutto, il testing di massa consente di tracciare i contagi in fase iniziale e quindi di intervenire subito, anche a domicilio, con terapie e quarantene.

Un vecchio adagio dei medici virologi, chiedete pure a chiunque conosciate di questi specialisti, dice più o così: per combattere un’epidemia non si deve rincorrere il contagio, ma lo si deve anticipare. Per ora teniamoci a mente questo aforisma e proseguiamo.

Osserviamo cosa accade, sempre secondo i dati raccolti dell’inviato del Corriere, dalle parti dei sedici Laender tedeschi per capire, se possibile, le radici di una così bassa mortalità. La Germania, al contrario dell’Italia che ha preferito il lockdown totale “in attesa che la famosa curva del contagio viri e scenda”, ha avuto una partenza “lenta” sulle restrizioni, e come prima reazione ha incrementato il più velocemente possibile la già alta disponibilità di posti di terapia intensiva e di strutture ospedaliere dedicate esclusivamente ai Covid. All’inizio della crisi negli ospedali tedeschi c’erano 28 mila stazioni di terapia intensiva, pari a 34 ogni 100 mila persone. Al confronto in Italia ce n’erano 12 e in Olanda 7 ogni 100 mila. Un mese dopo, il sistema sanitario tedesco dispone già di 40 mila posti di terapia intensiva. E così, magicamente, da qualche giorno, l’erre con zero (R0), cioè il numero medio di persone che ogni contagiato infetta a sua volta, è sceso dai 5 di due settimane fa fino a 1. Noi arriviamo, sempre dopo un mese, ancora a stento a 2,5/3.

E ancora, sempre in Germania, entro una decina di giorni sarà operativo il piano che consentirà di verificare l’immunità dei pazienti guariti: 100 mila prelievi alla settimana per iniziare. A coloro che al secondo o terzo test del sangue risultassero positivi (cioè con gli anticorpi nel sangue che li immunizza), verrà consegnato un “passaporto di immunità” che consentirà di tornare al lavoro o di proporsi come volontari nell’assistenza alle persone contagiate e isolate.

Capito, dunque, la strategia? Ospedali separati, per non creare il mix bomba di malati normali e malati infettivi, tamponi a tutti e non solo a chi presenta sintomi, cure preventive ai primi sintomi e test immunologici finali per tornare operativi.

Ora torniamo a noi.

Proviamo a fare una domanda, forse tendenziosa, ma mi sia concessa. Questo Stato, questo nostro Governo, hanno fatto davvero tutto ciò che dovevano o potevano fare per combattere nel migliore dei modi il virus? Oppure hanno fatto scelte magari anche inconsapevolmente dettate da una insicurezza di base (che si rispecchia nella miriade di decreti pasticciati e ricorretti a cui abbiamo assistito nelle varie dirette serali via social) derivata dall’impreparazione ad affrontare tale crisi? Scelte, per così dire, che alla fine possano mettere il cuore in pace al pensiero “ecco guardate, più di così cosa potevamo fare?”, che però non sono state strategiche e men che meno hanno anticipato il contagio.

Facciamo un salto indietro. Fine gennaio 2019. Il coronavirus in Cina fa già centinaia di morti. Dichiarati o meno, i decessi ci sono. Ma li fa in una regione della Cina, il Whuan, che viene blindata. Pechino, per dire, o Shangai allora come oggi, sono misteriosamente immuni. Per il nostro Governo, Whuan potrebbe essere Marte tanto è lontano. Però, in quei giorni, sull’onda di quanto accade e delle preoccupazioni diffuse dall’Oms, il Governo dichiara l’emergenza sanitaria nazionale. Bene, successivamente ci si sarebbe aspettati l’arrivo di un piano. Una strategia per prevenire che il maledetto contagio colpisca anche da noi. E invece cosa accade? Per un mese intero (febbraio), proprio nulla. Niente. Ricordate l’adagio dei virologi? Un contagio, per sua natura, si ferma con la prevenzione. La cura dei contagiati non è una strategia ma è una necessità. Il conto dei contagiati fatto in ospedale, dopo, tra coloro che arrivano già febbricitanti, è un dato per certi versi fuorviante, perché restituisce una statistica distante dalla realtà che esiste oltre gli ospedali.

Si poteva agire diversamente?

Pensiamo alla Germania e immaginiamo anche da noi, già a febbraio, la creazione di strutture destinate ai soli malati Covid, magari una per regione: le nostre regioni sono venti. E ci sono una miriade di strutture in ognuna di esse che si possono riadattare. Ipotizziamo anche delle cifre? Diciamo 100 milioni a struttura per fare venti ospedali Covid? Fanno due miliardi. Soldi che ci sono, visto che oggi, lo sappiamo, sono stati messi in piedi piani economici di emergenza, e in ritardo, per cifre ben superiori, a tentare di arginare la desertificazione del tessuto lavorativo che le restrizioni hanno causato.

Magari prevediamo anche un ambulatorio per fare i test per ogni provincia, per scovare i malati precoci, quelli che hanno appena i sintomi. Ne sarebbero serviti 107, tante sono le province italiane. Anche riadattando laboratori esistenti. E così avremmo separato i malati Covid dagli altri e avremmo iniziato a testare il resto della popolazione, ai primi sintomi, provando magari a curarli a casa loro e non intasando le rianimazioni. Manca il corpo curante? Cioè medici e infermieri e operatori per fare tutto ciò? È solo una questione di prospettive, in realtà. Per fare un esempio, uno dei sindacati degli infermieri scriveva l’altro giorno che solo nel Lazio c’è una graduatoria di concorso pubblico con 4000 nuovi infermieri in attesa, mai chiamati, mai minimamente presa in considerazione. I medici e gli infermieri si sarebbero trovati, bastava cercarli.

Ripensiamo ancora al “mantra” degli epidemiologi: per fermare un virus bisogna anticiparlo e non rincorrerlo. E noi che abbiamo fatto? Abbiamo atteso che gli ospedali generalisti, dove i malati Covid e i malati normali si incrociano, andassero in tilt sotto la spinta delle emergenze respiratorie dei contagiati. Abbiamo lasciato medici e infermieri a combattere soli nelle corsie, spesso senza strumenti di protezione, sommersi dalle richieste di aiuto. Lo Stato non è stato minimante in grado di fornire tali protezioni e gli strumenti anche solo per fare i test. In certe realtà, laddove possibile, addirittura ci hanno pensato solo i privati con generose donazioni. Poi abbiamo recluso il resto degli italiani, non sapendo se fossero o meno contagiati, devastando la nostra economia e il modo del lavoro. E ancora oggi ci domandiamo come e se allargare i tamponi a tutti (il Veneto ci sta provando), se fare partire o meno il test del sangue per l’immunizzazione. E sempre e solo in questi giorni arrivano, in alcune regioni (Piemonte e Lombardia), le prima strutture dedicate esclusivamente ai contagiati.

Nel frattempo, ci siamo concentrati nel progettare restrizioni sempre più pesanti per gli altri: per i cittadini “non malati, ma forse”. Strategie che parlano di satelliti per monitorare il territorio (leggi qui), di app che controllino tutti gli spostamenti tramite il cellulare da portare in tasca, droni che dal cielo fotografino ogni movimento cercando di stanare chi non rispetta quelle ordinanze che limitano e comprimono le libertà personali. Una sorta di ossessione di controllo. Con tanto di multe salatissime per chi viene sorpreso a più di 200 metri da casa senza una giustificazione efficace. Abbiamo Polizia, Carabinieri, Vigili ed Esercito per le strade a fare posti di blocco, ad aprire bagagliai e auto, a controllare se ciò che dicono i cittadini (lei dove va? “Sono andato a fare la spesa o a pisciare il cane”) sia reale o meno. Quasi che il nemico sia il cittadino e non il virus.

E così abbiamo generato la “psicosi dell’untore” con le persone che, appostate sui balconi, dietro alle tendine delle finestre, nascoste magari dietro alla recinzione di un cortile, sono pronte a denunciare, a insultare e lapidare (in senso figurato, certo, ma neanche poi tanto se potessero) chi si è azzardato ad avventurarsi sul marciapiede solo per camminare. Ciò, con i famosi decreti del Presidente del Consiglio, sempre più restrittivi che ogni paio di giorni hanno cancellato un pezzetto dei nostri diritti. E con i presidenti di Regione che, a loro volta, in una sorta di gara di machismo, hanno anche loro emesso ordinanze ad alzo zero in una rincorsa a chi impone restrizioni più pesanti (io comunque impedisco a tutti di uscire di casa, io impongo che non ci si possa allontanare più di 200 metri dalla propria abitazione, ma anche 100 che forse è meglio, io chiudo tutti i parchi le aree verdi e i fiumi, io metto multe doppie rispetto al resto d’Italia, io impongo a tutti di mettersi sempre e comunque le mascherine (che però non ci sono per tutti…), io controllo tutti con i droni e li fotografo, così poi posso multarli… e così via….).

È questo il Belpaese che ci ha regalato il coronavirus, una realtà dove le libertà e il diritto al lavoro di ogni persona, che un tempo erano granitici pilastri costituzionali, sono un ricordo, dove lo stato di emergenza ha preso il sopravvento sulla collegialità, e dove la gente, il popolo, quello che fino ieri si accapigliava su chi fossero i simboli fulgidi e intoccabili di libertà e rispetto, oggi di quella libertà e di quel rispetto degli altri ha scoperto di poterne fare allegramente a meno, difendendo lo status di segregati con una aggressività ossessiva. L’Italia, insomma, si è piegata ad una necessità di Governo (auto dichiarata e reiterata) legittimata sui numeri diffusi dai bollettini quotidiani dei decessi e dei contagiati, che ancora oggi lasciano adito alle più svariate interpretazioni, non chiari, mai esaustivi e di fatto non ancora rappresentativi della reale portata della diffusione del Coronavirus.

Nessuno discute il terrore e l’ansia generata dall’impatto di questo virus carogna, che tanto vigliaccamente ha colpito soprattutto la parte più anziana della nostra società e che ha sterminato migliaia di persone. Ma è la totale mancanza di lucidità e sangue freddo di chi, dovendo prendere decisioni fondamentali, avrebbe dovuto mantenere la barra dritta, a lasciare allibiti.

 

A che serve imporre “i domiciliari” a milioni di italiani, se l’unica strategia è quella dell’attesa che passi la tempesta e “qualcosa accada”, tamponando nel frattempo le falle di un sistema sanitario, che invece era l’unico scudo di cui disponevamo in tali emergenze e che doveva essere potenziato? Un sistema che è stato sforacchiato da anni e anni di scriteriati tagli, di mancanza di fondi, di lungimiranti azioni politiche al grido di “chiudiamo gli ospedali, razionalizziamo, mai un ospedale in più per soddisfare un primario in più”.

Oggi ci troviamo colpevolizzati fino alla paranoia grazie al continuo e snervante martellare del messaggio “stai a casa”, “se esci rischi di diffondere il contagio” e le persone hanno reagito come era ipotizzabile: scaricando la rabbia di quanto accade sul primo che passa per strada, da mettere alla berlina, da insultare sui social, da segnalare alle forze dell’ordine che lo multino, lo denuncino, sognando magari sotto sotto che lo si esponga nudo al virus “così magari impara, lui che si crede di poter passeggiare, che cosa voglia dire pigliarsi questa maledetta malattia”.

Ma ci rediamo conto? E allora diciamolo una volta per tutte. Non è colpa degli italiani se il virus è in giro, non è colpa delle persone che sono state chiuse in casa se il coronavirus ha fatto tanti morti. Non è colpa degli eroi con il camice bianco o azzurro se siamo in questo fetido limbo che ha ridotto e ridurrà alla fame migliaia di persone. Questa, infatti, per quanto possa sembrare assurdo, non è una emergenza strettamente sanitaria, ma una enorme emergenza strutturale che ha messo a nudo la colpa della politica dell’impreparazione, di cui siamo preda e insensati fautori da vent’anni. È l’effetto del fiorire di leader che dovevano piacere, conquistare like, parlare di tutto e nulla, dello sparare a raffica ricette improbabili (uno vale uno) invece che essere preparati o avere studiato, avere coscienza e rispetto del proprio ruolo e avere una strategia forte sul futuro del proprio Paese. Governare una nazione non è un mestiere come gli altri, è il mestiere più nobile e difficile in assoluto e ha bisogno di persone preparate e adeguate, poste in ruoli chiave. Ha bisogno di responsabilità e di rispetto: non è vero che chiunque lo possa fare, non sarà mai così.

 

Oggi invece, come novelli Lucignolo nel paese degli ex balocchi a cui hanno aperto gli occhi a schiaffoni, guardiamo con ammirazione e pendiamo dalle labbra di medici e scienziati, riscopriamo quanto sia importante la formazione, la ricerca, la competenza. Questa deve essere una lezione, che vada oltre il virus. Che ficchi a forza nella testa di chi vota quali sono le vere priorità per il Paese, per i cittadini e per il loro governo: i fondi per la ricerca e la sanità, lo sviluppo delle tecnologie in qualunque campo, lo studio e la formazione, le eccellenze da tutelare, che noi con beffarda autoironia chiamavamo “cervelli in fuga”, una strategia vera per il futuro della Nazione.

Oggi chi gestisce per noi questa emergenza epocale sono: un avvocato (il presidente del Consiglio), un laureato in scienze politiche (il ministro della Salute), l’ex steward dello stadio S. Paolo di Napoli (il ministro degli Esteri), un commercialista (il capo della Protezione civile) e un ex concorrente del Grande Fratello (l’addetto alla comunicazione della presidenza del Consiglio). Amen.

Naturalmente nessuno di noi poteva immaginare, nemmeno nei suoi pensieri più bui, una crisi di questa portata. Ma il dire “mettetevi nei panni di chi decide, non è facile” non può e non deve essere una giustificazione all’inadeguatezza.

La speranza è che quando la scienza e la caparbietà dei magnifici medici e infermieri avranno la meglio su questo maledetto carognavirus – e accadrà, statene certi -, la conseguente rinascita spazzi via finalmente e una volta per tutte anche la stagione degli incompetenti.

 

 

Luca Avenati

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