Sin da quando il chitarrista bresciano Marco de Santi (tra i migliori al mondo tra la metà degli Anni Settanta e i Novanta) ha deciso di costituire con altri chitarristi – concertisti e docenti di chiara fama – l’Associazione culturale musicale “Angelo Gilardino” creando, con il Comune di Vercelli, il Festival “Il legno che canta”, il suo pensiero fisso è stato quello di onorare la memoria del suo maestro e amico portando a Vercelli i migliori concertisti di oggi.
Nella prima stagione (2023/24) – consultandosi con Luigi Biscaldi, Alberto Bocchino, Antonello Ghidoni, Laura Mancini e Kewin Swierkosz-Lenart, i colleghi soci-fondatori dell’Associazione – la scelta è caduta su chitarristi italiani di riconosciuto valore come Alberto Mesirca, Giulio Tampalini, Christian Saggese, Carlotta Dalia, Luigi Attademo, Lucio Matarazzo, Giovanni Masi e Giovanni Martinelli. Il meglio della chitarra classica in Italia.
Mentre ancora era in corso “Il legno che canta” numero 1, de Santi già stava pensando alla seconda edizione (2024/25), stavolta puntando sui fuoriclasse delle sei corde a livello mondiale. E così ha costruito la seconda stagione concertistica andando a pescare i protagonisti della parte concertistica del Festival (che prevede anche mostre d’arte e di liuteria, conferenze, master classes) in mezza Europa.
Cinque i chitarristi scelti per emozionare come non mai gli appassionati di chitarra, ma anche i melomani che una chitarra mai l’hanno presa in mano. I primi due concerti, dell’ucraino Marko Topchii e del russo Dimitri Illarianov, sono stati ospitati al Dugentesco, mentre sabato il francese trentenne Thibaut Garcia ha suonato nella splendida Sala del Polittico del Museo Borgogna.
Se già i primi due concerti avevano conquistato il pubblico questo ha preso per mano ogni singolo ascoltatore e l’ha portato in un mondo che viene di solito frequentato dai poeti, dai sognatori, dagli artisti. Un mondo fuori dal tempo (pensate al famoso quadro l’Embarquement pour Cythère di Watteau) da cui, una volta entrati, è poi difficile tornare indietro, ripiombando nella realtà di tutti i giorni. Dalle primissime note di Agustin Barrios Mangorè si è capito che Thibaut Garcia era probabilmente quel musicista cui Angelo Gilardino alludeva quando parlava dei grandi strumentisti come di coloro che non inducono più l’ascoltatore ad apprezzare la bravura, ma che gliela fanno dimenticare del tutto, o passare inosservata.
“Se noi, ascoltando un interprete – diceva il maestro vercellese -, pensiamo che è bravo, o anche bravissimo, vuol dire che non lo è ancora abbastanza” . E quel punto, Gilardino citava, come esempio esplicativo, un passaggio dell’amatissima “Recherche”: “Del pianista in cui erano adombrate le figure di Saint-Saëns e Debussy, Proust scriveva che suonava così bene che nessuno se ne accorgeva più: era una finestra aperta sulla musica”.
Ed è proprio quanto abbiamo pensato, sabato sera, ascoltando Garcia. Abbiamo ascoltato, in tanti anni, decine, centinaia di chitarristi, molti bravissimi, veri draghi. Ma la considerazione proustiana è scattata per due soltanto: Marco de Santi e, sabato sera, per Thibaut. De Santi stesso ci ha fatto osservare che alcuni sommi chitarristi, come quelli che si sono esibiti sinora nelle due edizioni del “Legno che canta”, tentano talvolta di “forzare” il loro strumento, per ottenere dalla chitarra performance che la chitarra non è in grado di fornire. Thibaut, mai, nemmeno per un attimo. Ha suonato il “Capriccio n. 24” di Paganini nella trascrizione di John Williams come se stesse eseguendo il primo volume del “Carulli”, quello dei chitarristi esordienti, con una “leggerezza” stupefacente, irreale. Paganini e poi tutto il resto, con un rispetto, nell’esecuzione del “Colloquio con Andrés Segovia” di Gilardino (in sala c’era anche il figlio adottivo del maestro vercellese, il pittore Alessandro Gilardino Nicodemi), addirittura commovente. E poi, per chiudere un concerto che passerà alla storia, l’esecuzione della pagina più famosa (molto amata anche da Gilardino) di “La Catedral”. Perfezione assolta.
Il pubblico agognava i bis, e Garcia ne ha donati due, proprio agli antipodi, per ribadire la sua padronanza su tutto ciò che si può eseguire sulle sei corde: prima una trascrizione per chitarra di un pezzo per viola da gamba del compositore francese vissuto tra il ‘600 e il ‘700 Marin Marais, poi la Cumparsita, ed il pubblico è impazzito.





