Renzo Franzo e Mimmo Càndito, due giganti

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Vercelli – Nel giro di poche ore, martedì, la provincia di Vercelli ha dato l’addio a due grandi uomini. Non so se si conoscevano, probabilmente avevano avuto modo di incrociare le loro esistenze, ma anche se no, poco importa. In comune avevano l’intelligenza pronta e creativa, la dirittura morale e la voglia di viaggiare: entrambi per diletto, ma soprattutto per lavoro. Uno era Renzo Franzo, deputato per cinque legislature, a partire dagli albori della Repubblica e bandiera dei coltivatori diretti; l’altro si chiamava Mimmo Candito e viaggiava per il mondo non per intrecciare basilari rapporti politico-economici o per aprire nuovi mercati all’agricoltura italiana, ma per raccontare le guerre che purtroppo si accedevano (e si accendo) in ogni parte del pianeta.
Ho avuto il privilegio di conoscere entrambi, ed ecco i due adii ai quali ho assistito. Da giornalista , voglio raccontarli proprio a loro.

Caro Renzo Franzo,
alla fine sei tornato nella terra che amavi, come avevi scritto la scorsa estate al parroco del Duomo monsignor Giuseppe Cavallone, che l’ha ricordato nell’omelia. Non ci tornavi più da tempo perché bloccato dai tuoi 103 anni. Ma ecco che sei di nuovo qui, a riposarti per sempre perché, come recita l’Ecclesiaste (e la frase è stata ripetutamente citata da un grande del giornalismo qual era Enzo Biagi), una generazione va e un’altra viene, ma la terra rimane sempre lì.

A dirti addio in Duomo c’erano o le massime autorità cittadine e provinciali (sindaco, presidente della Provincia, sottosegretario Bobba), ma in modo particolare c’era lui, il principale collaboratore del Presidente Mattarella, Gianfranco Astori, che ti voleva bene come ad un padre, e che aveva scritto una impeccabile post fazione nella raccolta dei tuoi interventi parlamentari realizzata dai tuoi amici, per i tuoi cent’anni. E, ovviamente, c’erano tutti quegli amici e anche, e soprattutto, i “tuoi” bersaglieri che ti hanno celebrato anche con la loro tromba d’ordinanza e con la Preghiera dell’arma.

E poi la tua Pinuccia, la tua cara Maria Bobba (quanti anni di collaborazione con lei in Coldiretti e in Dc) e tua figlia Daniela, che, al termine della Messa ha travato parole semplici e impeccabili per descriverti, per tracciare una vita lunga, gratificante e con ben pochi rimpianti. Anzi no, ha ricordato, Daniela: per la verità un rimpianto c’era: quello di non aver potuto vedere la nascita dell’Ecomuseo dell’Agricoltura, cui tenevi tanto, nella tua Vercelli. MI sento di poter dire che questa sorta di testamento pubblico, svelato da tua figlia, non rimarrà senza risposta.

A salutarti, all’uscita dal Duomo, due ali di bersaglieri e una grande bandiera della Dc della prima ora sventolata da un attivista di Borgo D’Ale. Due simboli per un grande uomo che, ora, riposa nella sua Palestro.
Non devi più affannarti Renzo. Un’altra cosa, ripensandoci, ti accomunava a Mimmo, il tuo sorriso spontaneo ed educato, con cui accoglievi chiunque, anche gli avversari politici. Ti sia lieve la terra.

Caro Mimmo Candito,
più volte nei tuoi libri, e anche di persona mi avevi parlato di Ettore Mo, a tuo giudizio, e non solo tuo, il più bravo tra i bravi corrispondenti di guerra italiani, Non c’era nulla di visivamente riscontrabile che vi accomunasse: tu prossimo ai due metri, snello e slanciato come un pivot, lui leggermente pingue a stento vicino al metro e sessanta. No, nulla in comune dal punto di vista fisico, ma tanto, tantissimo sul piano culturale, professionale, umano. Due uomini che hanno raccontato le guerre dal loro interno, andando a sfidare il pericolo ogni volta perché nessuna tessera da giornalista può fermare una pallottola, una scheggia di mina o di bomba vagante. Anche se “vistio che si spara ad altezza d’uomo “ (Mo stesso ha ricordato questa tua facezia, parlando al termine delle esequie), il tuo grande collega del Corrierone poteva forse cavarsela più facilmente.

C’era dunque Mo, tra i tantissimi, a dirti addio in una chiesa dell’Assunta stipata come un gigantesco bus nell’ora di punta. Lui, e tanti altri, con cui hai condiviso fronti difficili, situazioni di pericolo e quasi mai alberghi degni di questo nome: Antonio Ferrari, Vittorio Dell’Uva , Lorenzo Bianchi. E poi, una miriade di colleghi della Stampa, ai quali Marinella, la tua Marinella si è rivolta con infinita gratitudine, dicendo loro: “Grazie, grazie, siete la mia vitta, la mia casa”. Molti sono stati anche miei colleghi, e potrei citarli tutti, ma non mi sembra il caso. Due sì, però: Domenico Quirico, che sa che cosa significhi fare quello che tu hai fatto per quasi cinquant’anni, al punto di quasi rimetterci la vita, e Roberto Franchini, ex redattore capo della Stampa, un po’ il padre nobile di tutti noi oggi sessantenni a riposo. E poi, a rappresentare con l’imprimatur dell’ufficialità “istituzionale” il tuo amatissimo giornale, il vice direttore vicario Luca Ubaldeschi che, invitato da Marinella, ti ha rivolto parole di congedo commosse e ineccepibili.

Tra coloro che hanno parlato di te, anche un sacerdote semplicemente straordinario, il parroco polacco di Crescentino, don Gianmaria Bogacki, che ti incrociava talvolta camminando verso il Santuario della Madonna della Palazzo, notando, anche nei giorni dell’ultima lotta contro il male, il tuo sorriso alto, fiero ed espansivo. Non mi dilungherò a raccontare la sua omelia. Dico solo che, rispetto a tante che ho ascoltato in centinaia di funerali (dove spesso il sacerdote dà una lettura sbrigativa del Vangelo, di solito Giovanni sulla resurrezione di Lazzaro), io vorrei avere un prete così che mi onorasse quando toccherà a me (e gliel’ho anche detto).

Sulla tua semplice bara nessun profluvio di fiori, ma un’unica rosa rossa e, prima che il feretro entrasse in chiesa, sotto gli occhi del sindaco Greppi, la banda del paese ha intonato un’aria che probabilmente tu amavi: la bellissima, struggente colonna sonora di “Nuovo cinema paradiso”.

Anche tu adesso, ragazzo di Calabria dal sorriso alto col quale sfidavi ogni volta e, dal 2005, direi, ogni giorno, la tenace avversaria che gioca a scacchi con il Cavaliere del “Settimo sigillo” di Bergman, hai deciso di venire a riposare qui, nella nostra terra vercellese, per stare fisicamente vicino a Marinella. Sappi che nessuno di noi colleghi l’abbandonerà, perché La Stampa è la sua, com’era la tua, casa.

Riposa finalmente sereno, amico mio. E se nell’Altrove incrocerai Franzo, lo riconoscerai dal sorriso, e lui riconoscerà te. In un’epoca di piccoli uomini, che coltivano solo un egoistico e labile apparire, voi siete stati due giganti.
Anche a te sia lieve la terra.

 

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