Dogtooth: la favola oscura di Lanthimos

Per poter visionare “Dogtooth”, film del regista greco Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il Sacrificio del Cervo Sacro, La Favorita), noi italiani abbiamo dovuto aspettare ben 11 anni, poiché la pellicola è stata girata nel 2009. Forti, forse, del periodo di reclusione a causa della ben nota emergenza sanitaria, Lucky Red decide quindi di distribuire nelle sale italiane il secondo operato di Lanthimos e prima collaborazione con lo sceneggiatore Efthymis Filippou data anche la tematica inquietantemente attuale: la reclusione in casa, anche se qui la causa non è dovuta ad un virus ma dai genitori degli stessi protagonisti: Padre e Madre, in un delirante e mai giustificato iperprotezionismo, inventano una realtà alternativa fittizia per poter costantemente ingannare i figli, arrivando anche a coniare un nuovo vocabolario (una vera e proprio neolingua) per alienarli maggiormente dalla realtà e convincerli che uscire dalla loro lussuosa e spaziosa villa significhi morte certa.

A quasi inizio carriera, Lanthimos e Filippou firmano un film volutamente surrealista e provocatorio, dalla matrice orwelliana e che cita più volte il visionario Luis Buñuel, fortemente allegorico (nessuno dei personaggi ha un nome e addirittura non sanno nemmeno che ve ne sia necessità) e che suscita nello spettatore molte più domande che risposte. Il film, vincitore del premio Un Certain Regard alla 62esima edizione di Cannes, prende a piene mani i ritmi e i temi della tragedia greca, con Thanathos ma soprattutto Eros incredibilmente presenti, e si rifà continuamente a simbolismi politici, come la figura del Padre-Stato che promette un mondo felice ma falso, portato avanti dal più classico mantra totalitario “è per il vostro bene/è per la vostra sicurezza”, battuta più volte ripetuta dalla figura patriarcale che predica il bene facendo inconsapevolmente del male.
I 93 minuti non scorrerranno in maniera fluida e di sicuro non è un film con lo scopo di intrattenere, bensì di provocare e a tratti inorridire, mostrando una realtà quasi del tutto inumana e grottesca, il tutto sottolineato dall’ottima interpretazione meccanica dell’intero cast (che vede la partecipazione dell’attrice Mary Tsoni, prematuramente scomparsa all’età di 30 anni) e da una regia con inquadrature fisse, lunghe e disturbanti nella loro costante calma apparente.

Emanuele Olmo

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1 commento

  1. Se il lockdown, privandoci “accidentalmente” della liberta’ per un motivo che non c’e’ più (se mai c’e’ stato), il “ripristino della salute”, conferma la necessita’ a propria volta del ripristino della democrazia … così la reclusione nella famiglia naturale ,”accidentale”, non abituale, ne conferma la necessita’.

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