Addio Enrico Villa, maestro di giornalismo ruvido e talentuoso

Una bellissima foto di Enrico Villa tratta dal documentario “Quei gloriosi anni da cronista” a cura dell'Associazione Stampa Subalpina e del Centro studi di giornalismo Pestelli.

 

Enrico Villa, decano dei giornalisti vercellesi, colpito da un malore, si è spento oggi al Pronto soccorso dell’ospedale Sant’Andrea. Aveva 81 anni. I funerali saranno celebrati i venerdì alle 10,30 nella chiesa di Billiemme,  mentre il Rosario sarà recitato giovedì, alle 17, nella camera ardente dell’ospedale. Questo è il ricordo di chi gli è stato collega e amico per più di quarant’anni.

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Caro Enrico,

Oggi, in Consiglio comunale, il sindaco Corsaro aveva appena commemorato una persona che tu conoscevi bene e che, come tanti, ammiravi: il notaio Francesco Boggia. Ad un tratto, Gianni Marino si avvicina al tavolo di noi giornalisti e ci dice: “E’ morto Enrico Villa”.

L’aveva appena saputo da Piero Medri, il presidente provinciale dell’Ana, l’associazione alpini per la quale tu confezionavi, ogni tre mesi, un giornale assai letto e apprezzato da tutte le penne nere vercellesi.

Ho cercato e purtroppo trovato conferme, telefonando a tua cognata che era appena arrivata lì da te. In poche, commosse parole, la tua seconda corsa al pronto soccorso in pochi giorni, ma stavolta l’esito fatale, probabilmente a causa di una emorragia cerebrale.

In un attimo si sono affastellati centinaia di ricordi. Le antiche rivalità, ma anche gli aiuti reciproci, le conversazioni in questura  o dai carabinieri, davanti a tanti amici, molti dei quali non ci sono più: il maresciallo Gallo, l’appuntato Gambino, il maresciallo Scipioni, il dottor Celìa, il dottor Acerra, l’appuntato Vinci (ricordo la tua disperazione, il giorno del suo martirio), il maresciallo Scino. Le attese delle sentenze ai processi – e che processi: mamma Ebe, su tutti – le disquisizioni sul riso (dove eri imbattibile) e quelle sulla Pro (in cui eri più battibile), i commenti sui colleghi, le amicizie e le inimicizie, i fardelli quotidiani, le telefonate notturne, i buchi che noi de La Stampa ti davamo, e quelli che ci infliggevi dalle colonne della Gazzetta. 

Non eri un collega facile, Enrico. Avevi una ruvidezza che ho sempre pensato che tu indossassi come un’armatura e che, al contrario, tu fossi invece un uomo buono e generoso. Cinque anni fa, il centrodestra mi candidò a sindaco della città. Quando la notizia uscì sui giornali, una delle primissime telefonate fu la tua, tanto inattesa quando gradita: “Ti voto di sicuro, e ti faccio notare, perché saresti un buon sindaco”. L’ho ricordato di recente a mia moglie: delle attestazioni di stima, quella fu tra le più gradite.

L’ultima telefonata, invece, avvenne poche settimane fa. Chiamai io e, gentile, ma con fare circospetto (perché ti proteggeva, ti voleva bene), mi rispose la tua badante, che poi ti passò la cornetta. Parlammo di tanti, di tutto. Del fatto che un capitolo del mio prossimo libro fosse su di te, e ne rimanesti colpito: “Di che cosa parlerai?”, mi domandasti. Ed io in breve ti riassunsi quel capitolo: la tua immensa bravura con la quale creasti una collana di volumi, per conto della Cassa di Risparmio – allora presieduta dall’amico comune Roberto Scheda -, tre volumi,  che hanno fatto scuola: “Scriviamo un libro insieme”.

Fosti colpito: “C’è ancora qualcuno che si ricorda – mi dicesti – delle cose che penso di aver fatto bene”. Poi la chiacchierata virò sul riso, il tuo argomento principe. E mi raccontasti che continuavi a scrivere per il giornale on line “Agromagazine” del mio caro amico Gianfranco Quaglia. Oggi, poco dopo aver ricevuto la notizia, gli ho telefonata, e Gianfranco mi ha detto che, purtroppo, aveva capito che doveva essere accaduto qualcosa di grave. Perché – mi ha raccontato – tu, puntualmente, ogni martedì gli spedivi il tuo articolo. Non l’avevi fatto la settimana scorsa, e poteva capitare. Ma due martedì di fila, questo no, questo mai da te.

Caro Enrico avrei ancora tante cose da dirti e da raccontare a chi mi sta leggendo. Una però voglio assolutamente dirla: dietro a quella scorza di “duro” c’era l’animo nobile di chi aiutava gli altri. Sempre nel mio libro che, purtroppo, non potrai mai più leggere, c’è il capitolo che riguarda una persona, non più giovanissima, che aveva avuto bisogno di te e che tu avevi preso a collaborare per la tua Gazzetta. Quella persona morì, purtroppo, per un malore proprio facendo il nostro lavoro che tu, a poco a poco, le avevi insegnato a svolgere e ad amare. Quante volete parlai di te con quell’uomo. “L’Enrico? E’ un finto duro: gli voglio bene, e quando mi dice bravo, mi sento in paradiso”.

Lo ritroverai “di Là”, con il Sergio, il Cecco, il Walter, l’Ezio e tanti altri. Parlerai ancora di riso e di Pro, quella Pro cui – durante una delle innumerevoli crisi – creasti una sorta di Saga, ispirata a “Radici”. Non avevi la più pallida idea di chi fosse il centravanti del tempo, ma avevi collocato all’allora Robbiano e in via Massaua una sorta di Kunta Kinte che si stava ribellando alla sorte che, anche allora, sembrava segnata per la Pro. Un esperimento estroso e geniale, che molti non capirono, ma che in parecchi (ed io ero tra quelli) apprezzarono.

Addio amico estroso e geniale, spigoloso, ma gentile. Sei stato un vero maestro di giornalismo e hai combattuto tante battaglie per questa città, che un po’ ti opprimeva (“Io sono milanese”, ripetevi non credendoci troppo, ma cercando di farlo credere), che spesso ti deludeva, ma che in fondo amavi visceralmente.

Di buono non hai fatto solo il miracolo di “Scriviamo un libro insieme”. Ci sono le raccolte della “Gazzetta”a testimoniare chi eri. Un osso duro, per noi della Stampa. Finalmente posso dirtelo, visto che non potrai leggerlo nel libro.

Riposa in pace, e che ti sia lieve la terra.

ENRICO DE MARIA

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1 commento

  1. Ci lascia,per raggiungere un’altra dimensione,un bravo professionista ed una brava persona.Che gli Sia lieve la terra.

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